A soffocare il groppo, prigioniero il fiato, stretto, ancorato anelito, stantuffo dell’anima, posto di blocco, a razionare e vagliare ogni possibilità di assaporare, e di essere, gioia.

Sei lì, sei quanto vorrei, ma resterò immobile, nel mio angolo, con gli occhi bassi, fra pareti di sofferto contegno, che come file di sentinelle in agguato vegliano sulle pulsioni e impediscono il mio passo.

Dal primo vagito di cui abbia memoria l’ansia di diventare colpevole mi vive, dirige scelte pilotate, delinea percorsi insoddisfacenti, trasfigura arcate sopraccigliari, in arresto nel loro impeto di esaltazione, congelate, in una rimessa posa da Pierrot.

Non procederò di un passo, né tu ti sentirai a tuo agio, non abbastanza da provare a raggiungermi. Ci accontenteremo di quell’unico muto sorriso, quasi una smorfia.

Quasi una smorifia.

Anestesia amara dei sensi, sono le colpe che potrei avere e che non sopporterei: si insuanono tra sogni agrodolci, scolpendo trabocchetti e inaccettabili valichi.

Colpe in potenza impediscono da sempre che scorra in me troppa vita, soprattutto vera, sì, vera vita.

Guardo la gente intorno e resto immobile, trattengo il respiro, implodo per non disturbare. Scruto, ma non devono accorgersene, so che prima o poi mi daranno il segnale per procedere senza che io lo chieda. So leggere ogni esternazione, anche la più labile, anche un tremore dell’occhio dietro una lente spessa potrebbe raccontarmi la direzione da seguire: gli altri sono da sempre i semafori per la mia esistenza.

O, dovrei dire, per la sopravvivenza.

Non fare. Non dire. Non respirare. Restare in ascolto. L’udito è il senso più sviluppato che io possieda, il più affidabile, dopo quello di colpa, si intende.

Dovevo premere le mani sulle orecchie con sempre crescente pressione, perché il frastuono delle grida rimbombava fortissimo nella corteccia celebrale e poi giù, rimbalzava verso le viscere, e poi giú, fino a sfondare le ginocchia.

La vista invece è sempre stata menzognera: la parete sottile appariva come in affanno, si gonfiava e sgonfiava al ritmo sincopato degli urli e confondeva la comprensione delle cose.

Ero una bambina, ma nonostante ogni ferita lo sapevo che era tutta questione di suggestione, come in quei film che si svegliano ed è stato solo un brutto sogno.

Non ogni cosa purtroppo lo era: le grida, quelle grida dietro la parete no, non mentivano, non si curavano di nascondere alcuna inaccettabile verità.

C’erano giorni in cui potevo persino osservare il blob nero del mostro, che mi comprimeva dall’interno, fuoriuscire dalle narici e riempire ogni angolo della stanza, oscurando del tutto la penombra delle tapparelle.

Tre volte. Sono incise nella memoria tre volte in cui il livello della sostanza melmosa è cresciuto così tanto che l’ossigeno si è del tutto esaurito, cedendo il posto alla più intensa delle disperazioni.

Solo allora, solo allora, per tre volte, ho raggiunto a fatica l’angolo più estremo della camera, vi ho appoggiato la sedia della scrivania, sono salita alzando prima un ginocchio, poi l’altro: due incudini che rendevano ai miei arti la lentezza esasperante degli incubi.

Aderivo alla fredda scanalatura di novanta gradi come un parallelepipedo nel suo scrigno, dritta, in piedi, senza riuscire più a trattenere il pianto, l’iride espansa verso il centro del soffitto.

Per tre uniche volte ho boccheggiato alla ricerca delle restanti molecole salvifiche, finché, finalmente, un’esplosione ha vomitato potente il nome di mia madre.

La parete allora ha smesso di respirare, è calato un silenzio irreale a spegnere le grida, e mamma è accorsa nella mia cameretta.

Colpa. Colpa. Colpa mia: il mio grido poteva liberarla, salvarla tutte le volte, ed io lo capivo.

Ma non riuscivo, non potevo, non sapevo. Solo tre volte ho saputo.

Per tre volte lei mi ha abbracciata, e liberatasi dalla sua morsa ne ha prodotta un’altra di valore opposto, asciugando poi il mio viso con un fazzoletta profumato di lavanda.

Ha aperto la finestra per fare entrare ossigeno, come quando faceva le pulizie e cambiava l’aria delle stanze.

Poi ha fatto scivolare via il blob dal balcone, una volta tanto incurante degli inquilini del piano di sotto, e ha posizionato la sedia alla perfetta distanza dalla scrivania.

“Piccola,” mi ha detto infine valutando con un giro d’occhi se almeno la mia stanza fosse tornata nell’ordine costituio delle cose, “non è colpa tua. Lo capisci vero? Tu non hai alcuna colpa”.

Lo sapevo, sì, e non le ho creduto.

Non ho creduto a lei, non ho sogni: mi fanno paura, specie quelli davvero belli. Nessun amico, non ho prestato attenzione a milioni di possibilità.
Oggi non ho saputo sperare in te, in noi, né a quella specie di smorfia che mal celava, muto, il tuo sorriso.