Un bacio. Frettoloso. Di quelli che si danno quando si crede di avere tempo infinito. Poi la solita corsa contro il tempo. Lui che accompagna la bambina e lei ancora in pigiama guarda l’orologio rendendosi conto che anche oggi potrà sì e no tamponare la situzione. Colazione in piedi, di corsa, mentre la testa ripassa in fila tutta la lunga serie di cose da portare a compimento nell’arco di una giornata sempre troppo corta. Ma tanto le sue energie, ormai lo sa, si esauriranno molto prima. Poi ora è estate, e a metà giornata è giá esausta. Ma stringe i denti, perché diversamente non può, e via con caffé e integratori, ingeriti con la sommessa disperazione di chi non ha altra scelta. Deve per forza ignorare il suo corpo che dice “stop! basta! Fermati! Non vedi che sono esaurito??”…

E la bimba? E il lavoro? E la casa? E sua madre che ha sempre più bisogno di aiuto? Chi ci pensa? Chi lo fa?… L’enorme mole di impegni che la travolge ogni singolo istante le fa accatastare un rapido ordine di priorità in qualche angolo veloce da consultare. Raramente le è concesso di riflettere abbastanza su queste priorità. Ma sente che a farne le spese, in ultima istanza, è senz’altro la sua vita sentimentale.

Con il tempo Emma e Giorgio si sono trasformati in qualcosa di più simile a soci in affari, che contribuiscono più o meno alla pari a mandare avanti la baracca.

Sa che la situazione è imperfetta, di non dedicare abbastanza attenzione alla loro unione, ma la fa sentire meno colpevole il fatto che Giorgio non faccia rimostranze, non la cerchi più di tanto, non più… E poi c’è quell’altra spiacevole sensazione. Da qualche tempo ogni azione condotta tra le mura di casa è soggetto non tanto di lamentele, quanto di un immancabile “appunto” sulla imperfezione del metodo applicato…

Perfezione? Non è mai stata nelle corde di Emma la perfezione. Non è mai stato neanche un suo obiettivo, e un tempo questo a Giorgio andava bene. Anzi, più di una volta, lui che lavorava nel mondo dello spettacolo, si era detto fortunato di avere accanto una donna rara, di quelle che preferiscono una serata a ridere e scherzare, leggere o gustare un vecchio classico in tv, assaporando magari una nuova, buona birra artigianale. Non una di quelle donne con le unghie perfette, i capelli perfetti, il corpo perfetto, la casa perfetta, una di quelle che sul lavoro a Giorgio capita di incontrare ogni istante, e che si indebiterebbero per possedere un capo firmato.

Per Emma invece è sempre stato strano ascoltare Giorgio raccontare di donne dedite solo allo shopping sfrenato, che la sera si divertono a sfoggiare quanto acquistato per l’aperitivo con gli amici in qualche locale nuovo, dove la musica è ok.

Prima di lei c’è stata quella ex… che, Emma lo sa bene (le amiche di Giorgio non perdono occasione per ricordarglielo) è stata per anni la regina degli “happening” di Milano, in quei posti dove i trentenni si impegnano a celebrare, con una specie di rito – che almeno a giudicare dalle descrizioni ad Emma sembra più una possessione satanica – non si capisce neanche più bene cosa.

Le fanno invece un po’ di tristezza gli amici di suo marito, perché li avresti ritrovati sempre lì, a far finta di essere perfetti e giovani e in forma tipo quelli della pubblicità della Compagnia delle Indie. Tutti senza complessi, senza traumi, o scheletri nell’armadio. Tutti senza mostri. In apparenza. Lei no, lei si mostra per quello che è: una che non saprebbe scegliere l’abito, e neanche il locale. Riuscirebbe a malapena scegliere il caffé sul banco del supermercato, perché lei è così, dispone di un palato tollerante e non si ferma mai a guardare il pelo nell’uovo. Forse dipende dal fatto che Emma, in fondo, è una sopravvissuta. E per i sopravvissuti tutto ha un sapore speciale: non serve chissà cosa. E Giorgio questo lo apprezzava un tempo, e per lui Emma era bellissima anche con quella maglietta dell’Hard Rock Café di Sidney troppo grande e sbiadita, che era stata sua e che proprio lei gli ha impedito di gettare.

Lei che a soli dodici anni, in piena estate, aveva dovuto affrontare le mani di polipo di quell’amico di famiglia che chiamava “zio”, e che la cercava di nascosto ad ogni pretesto. Emma da allora non aveva più amato l’estate, la evitava di solito nel refrigerio dell’aria condizionata del suo ufficio, e di recente l’aveva pretesa anche in casa. Perché nel caldo dei ricordi c’erano mani troppo grandi che le impedivano di dormire, e l’angoscia sbatteva forte sulle tempie, coprendo il suono allegro dei grilli con un grido soffocato dalla paura di non riuscire ad affrontare il suo mostro al prossimo quotidiano incontro.

Da quel giorno l’orrore della morte, che aveva scoperto essere un evento inevitabile, e che pure la costringeva in grida silenziose e soffocate nel buio di una stanza senza contorni, si alternava alla paura del giorno, quello in cui lui avrebbe potuto avere l’occasione di metterla all’angolo una volta per tutte. E poi c’era la vergogna. Non era una stupida, sapeva bene di non avere colpa, ma sua sorella, sua madre, tutti gli altri… cosa avrebbero pensato? Una vergogna illogica, eppure non riusciva a disfarsene.

Ma alla fine era sopravvissuta. Era sempre riuscita a scappare in qualche modo… a metterla proprio all’angolo no, il mostro non ci era riuscito. E alla fine Emma era cresciuta, e aveva persino imparato ad accettare l’ineluttabilità della morte: questo era successo proprio quando le era venuta in aiuto con suo “zio”, togliendolo dai piedi una volta per tutte e piuttosto prematuramente. Mai abbastanza, si era detta, mai abbastanza.

Perché poi non era mai riuscita a lasciarsi andare con i ragazzi: ogni tocco riesumava il polipo, lo riportava in vita per brevi istanti, tanto che alla fine si stava abituando all’idea della solitudine. Era diventata tutta casa, lavoro, studio. Un topo da laboratorio qualcuno diceva. Colmava così la sua vita. Finché il suo sguardo non aveva incontrato quello di Giorgio. Si sarebbe occupato lui della pubblicità della sua linea di cosmetici… il migliore, dicevano.

Si erano amati, lei e Giorgio, sì, si erano amati… come è che dicono? Il solito, banale “profondamente” rende l’idea. Ma il fatto di chiedersi se quell’amore sussista ancora… ecco, non vorrebbe Emma che sia già questa la crudele scoperta.

Allora è vero quello che ha letto in giro? L’amore eterno, quello che dura una vita intera, proprio no, cazzo, non esiste, è uno schifo di illusione che il genere umano sente il bisogno chissà perché di raccontarsi?

Perché il suo di amore, ecco, sembrava aver avuto tutte le carte in regola per esserlo.

A lui Emma era persino riuscita a raccontare la tecnica sopraffina del suo mostro personale: che agiva quando non era visto, ma allo stesso tempo ogni reazione di lei sarebbe stata udita facilmente da un membro della sua famiglia. Lasciava a lei la scelta di distruggere o meno la serenità di quella casa. Era sicuro di sè il polipo? O così matto da sentirsi in diritto di…? No, era stato solo un abile giocatore d’azzardo, uno per cui la sottile tensione di poter perdere ogni cosa aumentava, e di molto, il sapore della posta in gioco. Si è mai chiesto, almeno una volta, quanto male le ha fatto?

Questa notte Emma va a dormire prima, e come capita spesso negli ultimi tempi ripassa i dettagli di quella odiata faccia da satiro durante il sonno. In queste sere afose in cui a stento riesce a finire di vedere in tv insieme a Giorgio quello che hanno stabilito. Nonostante il caldo si addormenta subito, mentre suo marito si trattiene sul patio a bere un bicchierino e fumare un sigaro… e forse anche altro. E lei non lo sa… non lo sa per certo, e questo la dice lunga su cosa sono diventati. Sì… ne percepisce lieve l’aroma intrufolarsi tra le pareti domestiche.

Qualche volta è capitato che Emma, svegliandosi per la sete, non lo trovasse al suo fianco. Cosa faccia tutto quel tempo alzato resta un mistero che non considera motivo di indagine. Forse perché ha il palato tollerante: le basta essere certa che Giorgio non sia un mostro. E di questo è certa. Se venisse a sapere questo sarebbe la sua fine e quella di Giorgio. Ma una come lei, una che i mostri li ha conosciuti davvero, li sa anche riconoscere, di questo si sente abbastanza sicura. Sa che Giorgio non ha mai smesso di studiare, ricercare, ama tantissimo il suo lavoro, per questo è il migliore. È così che passa molto del suo tempo: ad approfondire. Ed è stato proprio quello uno dei motivi per cui ha fatto breccia nello spettro vitale di Emma, quando troppa umanità con la quale aveva tentato un confronto le era sembrata povera di interessi, spesso anche emotivamente, quasi statica e, cosa inconcepibile per lei, priva di spinta a migliorarsi.

Non Giorgio. Lui le era sembrato da subito diverso. Intelligente, modesto, curioso, timido. E impegnato. Sentimentalmente. Non ne aveva fatto mistero, fin da quel primo incontro durante il primo brief, quella indimenticabile riunione di lavoro. La spontanea ammissione le era parsa un voler subito porre le distanze rispetto all’intesa che li aveva trovati, invece, protagonisti di occhiate complici.

Lui e quel suo sguardo di mille ciglia nere che incorniciava in un sorriso dolce e caldo e buono un paio di occhi troppo blu. Sarà stato che occhi così le erano sembrati da subito l’esatto opposto di quelli che sapeva riconoscere in un mostro: all’improvviso Emma aveva scoperto cosa significasse desiderare di appartenere, fisicamente, a qualcuno.

“Maledetto il giorno che t’ho incontrato, Giorgio Antinori, maledetto…”

Non riusciva a smettere di pensare a lui, alle sue mani, alle sue labbra. Un dolore nuovo e sconosciuto la opprimeva, insieme alla felicità di riscoprirsi “normale”. Ma di quel dolore doveva liberarsi almeno per un po’, pensare ad altro, e così se ne era andata al cinema da sola, a vedere il director’s cut di Blade Runner, ad affogare la tristezza in un formato extra-large di popcorn.

“Scusi signorina, è libero il posto al suo fianco?”

“Guardi che ormai i posti sono numerat…”

Così onesto, Giorgio, che in una sola settimana dal loro primo incontro aveva fatto chiarezza e aveva deciso che sarebbe stata Emma la sua nuova casa.

E dieci anni gli avevano dato ragione. A lui e alla scelta di quella sera. Quella in cui, finito il film, senza troppi indugi lui le aveva detto “ti voglio, voglio sentirti addosso, e non mi accontenterò di una volta sola.”

Si erano trovati nudi e tremanti uno di fronte all’altra, a bruciare di passione fino a ritrovarsi sfiniti.

E alla fine lei piangeva.

E lui non capiva perché… ma incredibilmente qualcosa intuiva. Cercò allora le parole per sdrammatizzare,

“Come nei film… ma allora è vero che succede così.”

“Forse ho preso qualche malanno. Mi sento la febbre…”

“O è un morbo che gira, o si tratta di altro, perché anche io mi sento strano… E poi, Dio quanto sei bella, ma cosa mi hai fatto?Non riesco a smettere di baciarti, e di toccarti, e… ”

I giorni successivi furono tutti attesa di giorno, passione la notte.

E ognuna di quelle nuove notti li faceva sentire di essere i più fortunati al mondo, solo per il fatto di essersi trovati. Ed era così, e sempre di più, di più ad ogni nuovo respiro, con occhi immersi negli occhi, con labbra che combaciavano e univano le rispettive essenze in un nuovo sapore dal retrogusto migliore. Due esseri che si bastavano, si completavano, o forse addirittura ampliavano gli spazi, come se per una qualche processo chimico quella unione non si esaurisse affatto in una semplice somma.

“È che se non mi sei intorno mi manca un pezzo. È che proprio sto male se so che quel giorno non ti vedrò. È che mi sento nuovo e migliore se mi sei accanto. Vieni a vivere con me.”

– É che finalmente ho sconfitto il mio mostro, grazie a te –

“Ok.”

Il matrimonio arrivò dopo un po’. E non fu per rispetto a nessuna convenzione. Si trattò forse di voglia di festeggiare, di condividere, di raccontare al mondo quanto un tempo sarebbe bastato solo sapere, solo svelare a se stessi…

Il matrimonio, quello che, qualcuno dice, è l’inizio della fine. E nel senso della perdita del bisogno di bastarsi forse ha anche un senso, se non si considera, invece, che è la capacità di rinnovarsi, insieme, che può rendere speciale e duratura una relazione. No. Non si rimane uguali per sempre. Si cambia, si cresce. A fare la differenza tra chi riesce ad andare avanti e chi non lo fa c’è il desiderio di riuscire ad evolvere entrambi senza porre nuove distanze, mantenendo accesa la meraviglia della compatibilità.

“Sei sempre tu, ma sei nuova ogni istante. Sei sempre Emma, la mia Emma, eppure di riscoprirti non mi stanco mai.”

Forse non è la sete che l’ha risvegliata stanotte… Si gira e rigira nel letto Emma, cercando di capire quando è successo che di riscoprirsi abbiano esaurito la voglia. Quando esattamente hanno lasciato appassire un fiore così raro, così stupefacente come quella unione…?

Giulia, la loro bambina dagli occhi troppo blu, forse è stata la prima sottile imposizione.

“Voglio un bambino.”

“Certo amore, lo avremo.”

“Ma adesso.”

Il silenzio era stato assordante quella sera. E lunga la notte. Ma la mattina Giorgio l’aveva stretta a sè e detto “Allora, iniziamo a darci da fare?”

La prima bugia. Quell’entusiasmo, mostrato solo per farla felice, per paura di perderla.

Con il cuore nello stomaco si rende conto, Emma, che è stato quello il momento, quello in cui, per desiderio, per voglia di maternità, ha fatto finta di credere vera la sua bugia d’amore.

“L’inizio della corruzione della nostra intesa…”

E poi c’é che forse, forse è capace di un solo amore esclusivo alla volta, Giorgio, perché su sua figlia ha dirittato ogni singola attenzione, ogni sguardo, ogni sorriso, ogni frase dolce… ed Emma con il tempo ha finito per fare lo stesso. Non sono più uniti dal loro amore, ma da quello dedicato al frutto della loro vita insieme: un sentimento esclusivo e tangibile. Giorgio fin dal primo istante è ammutolito davanti alla perfezione di quelle manine minute che sembravano volersi apropriare di tutto il mondo, afferrarne ogni sporgenza. Giulia poi è cresciuta, e Giorgio pensa a proteggerla dai mostri. Ci pensano tutto il tempo lui ed Emma. Ormai è così da anni. In nome di un amore, forse più grande, Emma e Giorgio hanno finito per dimenticare esattamente chi sono e chi sono stati.

A lavoro Emma riceve un messaggio “sai, passavo da queste parti, pranziamo insieme?”

Quanto tempo è che non vede Marco…

Un suo vecchio collega dei tempi dell’università, un ragazzo carino. Molto carino. Che lei però ha sempre un po’ ignorato, forse perché nella sua vita, nelle sue notti insonni, quando si erano conosciuti, ancora c’era un mostro.

Marco, un ricercatore, e un nuotatore… Con gli occhi nocciola, e le labbra disegnate, uno poco abituato ai no. Ma Emma non aveva mai sentito di poter trovare con lui il coraggio necessario per essere normale, almeno non all’epoca.

Oggi Emma non sa, non vorrebbe… in fondo è solo un pranzo, nulla di più! E alla fine sì, accetta.

Quando si incontrano lui è appena un po’ invecchiato, ed è ancora molto dolce. Le fa tanti complimenti, che è sempre bella, che ha sempre quello sguardo incredibile, che in più è così semplice… Emma è confusa, non sa bene cosa vuole. Di certo non sono belli come quelli di Giorgio i suoi complimenti, come dire… sembra tutto artefatto. Le ricordano quasi… no, adesso non esageriamo, però per qualche ragione non le fanno girare la testa, questo proprio no. Non sono come quelli che Giorgio non le fa più… Ma cosa sta facendo? All’improvviso si sente ridicola, una stupida. Meglio andare.

Si gira per chiamare un cameriere, “scusami Marco, ma è meglio chiedere subito il conto.”

Ma poi lo vede. E il sangue si gela nelle sue vene. In piedi, in procinto di andarse, le sembra che mille sguardi ora puntino sul suo imbarazzo.

E lei, l’altra, è perfetta. Unghie perfette, tacchi a spillo, capelli perfetti, la sua caviglia che incrocia e si appoggia sotto al tavolo a quella di Giorgio.

– Una ragazza così, avrà mai avuto, lei, il suo mostro…? –

È allora che sente un polpastrello asciugarle una lacrima, e poi vede le labbra di Marco assaporarne il sale, “la conosco, è una mia collega, e non vale la metà di te.”

“Per questo mi hai portata qui? Per una chance in più? Perché li vedessi? Sai una cosa… va bene così. Anche lui non vale la metà di se stesso. Ma sono qui… forse anche io non valgo così tanto come pensavo…”

– siamo il risultato di un mondo in cui vincono i mostri? –

“Per me sì. Per me tu vali tantissimo, Emma” insiste Marco, non capendo di avere già perso.

“Ma se neanche mi conosci?”

“Non si può cambiare così tanto”

“Il fatto è che non mi hai mai conosciuta. E poi cambiare… O sì, sì che si può”

Sta male Emma. Prova un dolore che lacera il suo petto. Non è gelosia, ma senso di perdita… però, se cerca bene… incredibile, trova anche un po’ di rinnovata speranza, perché si rende conto che lo ama, ama Giorgio ancora.

Anche se forse, ormai, non servirà a nulla.

Emma si alza e va via, ma prima rivolge al suo uomo, all’unico uomo che saprebbe amare, un ultimo sguardo.

Proprio nell’esatto istante in cui Giorgio ritrae il piede e chiede il conto, e se lo conosce bene, come in effetti lo conosce, sì… è imbarazzato, ma determinato.

– lui è sempre stato l’opposto di un mostro, per questo è “lui” … –

Emma guarda Marco e fiera aggiunge

“La tua amica ha fatto male i suoi conti… e anche tu.”

– ma ci è mancato poco … –

La speranza si fa un po’ più grande: forse c’é ancora tempo. E allora raccoglie la sua vecchia borsa di cuoio, che avrà forse vent’anni, e corre via.

Sorride Emma, sotto gli ochiali da sole, come chi sente di avere una nuova, rara occasione, come chi ancora una volta scopre che tutto è possibile.

“Però, che bella giornata! Un momento… ma io odio l’estate. La odio…  davvero?”