Ho bisogno di dirtelo, Silvia.

Questo doveva essere un momento di gioia per te e per la tua famiglia.

Da vivere nel silenzio di uno sguardo complice. Nel calore di un abbraccio che cura. Nella ricerca del tempo perduto. Nell’elaborazione della terribile paura avuta.

Due anni senza sapere se.
Due anni…

Immagino il terrore dei primi giorni.

Quel terrore che ti cambia per sempre.

Che ti percorre l’affanno del respiro.

Che ti scorre silenzioso insieme al sangue nelle vene.

Ho bisogno di dirtelo che mi vergogno.

Perché vorrei riuscire a fare qualcosa per questa umanità insalvabile.

Come te, che aiutavi i bambini “a casa loro”.

Non era così che dicevamo? Poi però non va bene neanche questo.

Come vedi come la fai la sbagli, Silvia.

A me basta anche uno solo di quei commenti, di quelle minacce, per avere evidenza che siamo senza speranze.

Noi avremmo dovuto accoglierti e  proteggerti.

Noi dovremmo proteggere le nostre figlie.

Noi dovremmo permettere loro di crescere nel rispetto delle proprie idee.

Noi dovremmo credere che la loro autodeterminazione ha un valore inviolabile.

Noi dovremmo elevarle all’altezza dei loro grandi sogni.

Sostenerle: a partire da cosa indossano la mattina, fino alla nave che condurranno come capitani.

A partire da come portano i capelli fino alle prossime vite da salvare in mare.

A partire dal talento su cui investire fino ai prossimi bambini mutilati di sogni cui restituire un po’ di calore.

Ah, per chi ha bisogno dei sottotitoli, quando parlo di figlie non parlo di quelle biologiche. Non solo almeno.

Silvia, se fossi tornata in minigonna purtroppo sarebbe stato lo stesso.

Avrebbero trovato altro da dire.

Altre idee da attaccare.

Con le donne in prima fila.

Le donne nemiche di loro stesse: e poi ci chiediamo perché il mondo è in mano agli uomini.

La tua minigonna sarebbe stata un altro tipo di libertà da mettere a tacere.

Noi, il popolo giudicante e tristo.

Di cui Silvia, credimi se puoi, io non mi sento parte.

Anche se oggi mi sento ugualmente colpevole.