Siamo tutti figli di Facebook, come scrittori, ne sono consapevole e spero che lo siate tutti voi.
Cosa sarebbe la nostra scrittura se non potessimo pubblicarla sul social network, raccogliere consensi (o imbarazzati silenzi), farla leggere agli amici?
Quanti di noi raccoglierebbero i loro scritti in una cartella e li spedirebbero all’editore per avere una risposta elusiva o negativa dopo qualche mese e quanti, feriti nell’orgoglio e consapevoli dei rifiuti avuti da un Proust o più prosaicamente da una Rowling, avrebbero pensato di pubblicare a proprio spese le loro opere (e in fondo, se ha successo un Fabio Volo o una Littizzetto, perché io no)?
Diciamoci la verità: resisterebbero solo gli aspiranti scrittori veramente convinti della bontà delle loro opere, io sarei stato il primo a tenerle nel cassetto.
Questo sarebbe stato positivo? No, non lo dico assolutamente!
Il miglior modo per imparare a scrivere è… scrivere. Leggere, studiare, ma scrivere, e tanto.
Se poi ne verrà fuori qualcosa di buono, bene, altrimenti ci saremo divertiti, perché se per uno scrittore dilettante scrivere non è un divertimento, allora è meglio che si dedichi alle bocce, al biliardo, alle carte o a qualche gioco di suo gradimento (io mi sarei dedicato volentieri al sesso, ma è un altro discorso 🙂).
E questa è la parte positiva.
Quello che mi domando è cosa scriviamo.
Se decidessi di mettermi a dipingere, potrei benissimo farlo: mi basterebbe comprare tele, pennelli e colori, un bel cavalletto e cominciare. Magari anche un cappello da pittore, così potrei entrare meglio nel ruolo. Qualcosa sulla tela ce la metterei, anche se non ho mai dipinto e non ne sono assolutamente in grado, ma è garantito che non avendo alcun talento per la pittura e non avendo mai studiato questa arte farei delle cose spaventose.
Allo stesso modo, per scrivere non basta buttare giù delle parole in un linguaggio ortograficamente e sintatticamente corretto. Scrivere creativamente, perché di questo stiamo parlando, implica coinvolgere il lettore in una serie esperienze, opinioni, sensazioni, avventure, spingendolo a creare con la sua fantasia i mondi che noi abbiamo messo sulla carta. Se questo processo non ha luogo con la maggior parte o buona parte dei lettori si può dire semplicemente che abbiamo fallito, perché non siamo stati in grado di comunicare.
Ora, se scriviamo un microracconto di tot caratteri obbligati, magari con l’obbligo di utilizzare un paio di parole chiave, o un argomento prefissato, va benissimo. Stiamo facendo un gioco molto simile a quelli enigmistici, oppure un esercizio didattico, ma non stiamo scrivendo.
Se buttiamo giù un testo estemporaneo, più o meno breve, cosa stiamo facendo?
E’ un racconto o non è un racconto? Un racconto è caratterizzato da alcuni criteri fondamentali, e secondo lo stile proprio degli autori può essere scritto utilizzando diverse tecniche, per esempio lasciando libero il lettore di ricostruire parti pregresse o giocando sulla sorpresa finale, sul rovesciamento dei ruoli eccetera, ma sicuramente deve essere costruito con estrema attenzione, più ancora di quella necessario per un romanzo, perché qui ogni parola è importante e deve avere significato.
Un racconto può anche essere breve, magari un paio di pagine, ma in questo caso deve essere fulminante, essenziale, esprimere in quel centinaio di righe tutto quello che era necessario esprimere. Altrimenti è come il dipinto di cui parlavo prima: uno schifo.
Facciamo un piccolo esame di coscienza: Flaubert produceva circa una pagina alla settimana, Joyce molto meno, London circa mille parole al giorno, King duemila, ma naturalmente senza contare le revisioni, le riscritture e così via. Considerando che una pagina consta all’incirca di millecinquecento battute e un minimo di quattro revisioni (senza contare almeno una lettura «esterna» di confronto), fate un po’ voi.
Allora, come è possibile che io scriva la stessa quantità di testo, quattro-cinquemila battute in un paio d’ore? Le possibilità non sono molte, soltanto due: o io sono molto più bravo e più produttivo degli scrittori citati (e praticamente di ogni altro scrittore) o pubblico sul web cose incomplete, raffazzonate, magari ortograficamente e sintatticamente corrette, ma che con tutta probabilità non hanno né capo né coda. Ed è un peccato, perché magari se le curassi come si deve potrebbero essere anche decenti, certo, senza aver la pretesa di essere un Borges o un Calver, ma almeno non del tutto ignobili, non sempre. Non è un caso che in genere i migliori racconti che ho letto sul web siano quelli provenienti da precedenti scritture, blog o cose del genere, appunto perché hanno beneficiato di un minimo di revisione.
Poco tempo fa ho avuto occasione di leggere “La donna che scriveva racconti”, di Lucia Berlin (americana, non italiana). Ecco, mi è venuta voglia di andare a nascondermi e non uscire più dallo scantinato buio finché non fossi riuscito a produrre qualcosa di simile ad uno dei suoi racconti, anche scopiazzandolo. Per fortuna in casa mia non ci sono scantinati 🙂
Quindi, visto che pensare di ricevere critiche sincere e costruttive sul web è del tutto aleatorio (nessuno vuole perdere degli amici), diamoci una regolata, altrimenti sarò costretto a mandare in giro il draghetto blu a vendicare le offese subite dalla povera Calliope, che suo malgrado si è vista affidare la rogna di rappresentare pure noi scrittori (ed è una cara ragazza, credetemi!)