Giallo, Giorgia aveva deciso: questo era il suo colore preferito.

Giallo è il calore del sole, è lo splendore di stelle nella notte, è la luna che si specchia nel mare, è la corolla delle margherite con cui adora giocare a m’ama-non-m’ama, è il colore dei pulcini della loro vicina, la signora Mancini, è il dente di leone che diventerà soffione.

Era così fiera della lista delle motivazioni che aveva trovato, che quasi non capiva perché ci avesse messo tanto. Era persino eccitata per la prevedibile reazione della mamma, così incline, nel suo speciale modo di amarla, ad esaudire ogni suo desiderio: le avrebbe rinnovato il guardaroba, lo zaino, le lenzuola e forse persino il tappeto scendiletto: tutto in onore dei gusti espressi, spesso estirpati da una banale domanda – “qual è il tuo colore preferito?” –  che però la coglieva sempre impreparata.

Giorgia pensava che gli adulti fossero un po’ fissati con questa questione del dover scegliere il preferito di ogni cosa. Ma come esimersi dal rispondere? Si sarebbe sentita stupida o, ancora peggio, una bambina dalle idee non chiare. Oggi però quella risposta ce l’aveva e questo la faceva sentire più grande e più viva.

Adesso si trattava solo di ingannare il tempo fino all’ora di cena, pensava gironzolando felice per le vie del suo piccolo paese. La famiglia si sarebbe riunita a tavola e anche Ilaria, la sorella maggiore, sarebbe stata tenuta a presenziare. Il rapporto con lei era cambiato e questo la faceva molto soffrire. Da compagne di gioco inseparabili, a disperati tentativi di catturare la sua attenzione quelle rare volte che riusciva ad averla vicino. Così, a tavola le raccontava la sua giornata ingigantendola come poteva. In cambio però riceveva solo monosillabi o semplici cenni del capo, segni inequivocabili che non la stava veramente ascoltando.

 

Nella sua ingenuità di novenne, Giorgia era sicura che quella rivelazione avrebbe aggiustato le cose con lei, la sua unica e più grande amica, la persona più importante nella sua vita. Insieme a mamma e papà ovviamente, ma loro erano troppo grandi per giocare. E mentre vagabondava, si esercitava nella pronuncia e nell’enfasi della dichiarazione: Giallo! Giallo come… e faceva finta ora di avere fra le dita una margherita, ora di accarezzare delicatamente un pulcino sul palmo della mano, ora di stare col naso all’insù in una notte particolarmente stellata.

Strinse ancor più forte a sé il barattolo di vetro, così perfetto per la sua caccia agli insetti: trasparente, per poterci guardare dentro, col tappo in alluminio forato, per far passare l’aria. Le era stato regalato da Ilaria: un tempo, quando ancora giocavano insieme, era suo, mentre Giorgia doveva accontentarsi di una scatola di scarpe. Glielo aveva ceduto qualche mese prima con tanto di cerimonia ufficiale, e lei era stata così contenta per l’investitura che aveva cerchiato quel giorno in rosso sul calendario, come si fa per le date importanti e per le feste. Ben presto si era però resa conto che quel dono era stato una sorta di congedo. Era quasi certa che a Ilaria non importasse più un granché di lei, ora che trascorreva tutto il suo tempo con i nuovi amici oppure chiusa in camera sua a sfogliare riviste e provare nuovi trucchi.

Con quei pensieri si incamminò per le vie del paese, stranamente più solitarie e silenziose che mai, in quella domenica di fine giugno. «Forse farà troppo caldo per gli altri?» domandò a un porcellino di terra mentre lo faceva appallottolare per poterlo meglio afferrare e infilare nel suo barattolo. «Non preoccuparti», lo rassicurò avvicinando il naso al vetro, «non catturerò nessuna mantide che possa tagliarti la testa e mangiarti!»

Che la femmina della mantide religiosa decapitasse il marito e se lo divorasse era un’altra cosa che le aveva insegnato Ilaria.

No, decise che non era una buona idea dirigersi verso la piazzetta: lì si sarebbe riunita sicuramente la compagnia della sorella. Ogni tanto le aveva chiesto se poteva accompagnarla, promettendole che non le avrebbe dato fastidio e sarebbe stata buona e silenziosa. Ma quelle poche volte che aveva acconsentito, Ilaria l’aveva ignorata facendola sentire un peso.

Fra tutti trovava specialmente odioso quel Diego, che invece pareva piacere molto alla sorella. Quante volte l’aveva sentito nominare al telefono nelle confidenze con le amiche! Quel ragazzino che si divertiva a fare lo sbruffone sulla bici rossa, sfrecciando ovunque a grande velocità, facendo sgommate e impennate per farsi notare: come faceva Ilaria ad avere un debole proprio per lui? Una testa vuota, un gradasso maleducato e antipatico che l’aveva presa in giro davanti a tutti solo perché era la più piccolina, come se l’età decretasse il livello di maturità, cosa che per lui – pensò Giorgia – di certo non valeva.

Rosso, pensò, ma che persona banale può scegliere il rosso come colore preferito? Rosso come…? si chiese. Come la mela che aveva avvelenato Biancaneve, che aveva fatto disubbidire Eva e come i cuori simbolo dell’amore che ora pareva l’unico interesse di Ilaria. Pensarla a sbaciucchiarsi con lui le fece venire un brivido di disgusto: «bleah!» disse rivolgendosi di nuovo al porcellino di terra. No, oggi non avrebbe accettato insetti rossi nella sua collezione, neanche se avesse trovato delle coccinelle: altro che portafortuna, portastrafortuna! pensò Giorgia, e strofinò il barattolo quasi fosse la lampada di Aladino pronta ad esaudire i suoi desideri. Lei in fondo si sarebbe accontentata di tornare a giocare con sua sorella e far scomparire il ragazzo della bici rossa.

Così deviò verso i campi che conosceva tanto bene. Il paese era talmente piccolo che né le sue vie né i suoi dintorni avevano segreti per lei, e non le importava di venir sorpresa dal calar del sole: orientarsi in quel labirinto di sentieri non era mai stato un problema e sarebbe tornata a casa in tempo per la cena.

 

Era davvero fortunata quel giorno: il grano era ancora alto, le spighe si spezzavano quasi sotto il loro stesso peso. La mietitura sarebbe avvenuta a breve, ma lei poteva ancora una volta attraversarlo correndo, come faceva nelle gare con Ilaria a chi arrivava prima al vecchio ulivo dal tronco gigantesco. Giallo come il grano, annotò mentalmente da aggiungere alle ragioni per cui amare quel colore. Col sorriso disegnato da quei ricordi si mise a correre più veloce che poteva. Le spighe le pizzicavano il viso e lei cercava di ripararsi gli occhi con la mano libera dal barattolo, ma senza mai rallentare, come se stesse davvero gareggiando con qualcuno. Più correva, più si sentiva leggera; più vedeva la sagoma del grande albero amico avvicinarsi, più accelerava incurante della fatica, del fiatone e del male alla milza che sentiva arrivare. Quando arrivò a toccare il tronco dell’ulivo gridò istintivamente «Prima, prima, prima, sono arrivata prima!» e rise felice.

Avrebbe raccontato a Ilaria anche questo, che era stata velocissima e se avessero gareggiato ancora questa volta non sarebbe stato tanto facile batterla.

Si sedette esausta a riprendere fiato. Quel tronco era sempre stato ricco di sorprese: avrebbe approfittato della pausa per incrementare la sua raccolta. Le bastò allungare la mano per afferrare due formiche, un coleottero, un ragnetto e persino una forbicischia. «Non far male ai tuoi coinquilini però!» la ammonì sorridendo. Alzò lo sguardo verso la fronda dell’albero e le venne un’idea: potrei dar loro delle olive! Magari ne sono golosi e non si mangiano l’un l’altro, pensò.

Si alzò e, mettendosi in punta di piedi, cercò di afferrare il ramo più alla sua portata. Lei adorava le olive, anche se aveva imparato a sue spese che quelle prese direttamente dalla pianta non erano ancora buone (quanto aveva riso Ilaria vedendola sputare per cercare di togliersi il saporaccio dalla bocca?). Ma gli insetti, pensò sorridendo al ricordo, non saranno così schizzinosi.

Aveva sottovalutato l’altezza del ramo. Anche cercando di mettersi il più possibile sulle punte doveva fare uno sforzo immane per allungare il braccio e afferrare le foglioline più vicine. Il primo tentativo andò quasi a vuoto: le foglie si spezzarono e il ramò ondeggiò più volte, prima di tonare nella sua posizione. A Giorgia parve di intravedere però qualcosa: un colore si era fatto largo fra le fronde. Un nido? No, era un giallo troppo intenso per essere un nido. Forse una palla lanciata troppo in alto e ormai data per dispersa? O semplicemente un abbaglio, pensò alzando le spalle. Ritentò: appoggiò il barattolo a terra per poter prendere lo slancio con due mani e arrivare più in alto possibile. Oplà, si incitò afferrando il ramo un po’ più in su.

Non ebbe il tempo di allungare l’altra mano per cogliere le olive che vide ancora, in lontananza, quel giallo fra le foglie. Un giallo bellissimo, penetrante… ma cosa era? Lasciò perdere le olive, riprese il barattolo da terra e girò intorno al tronco dell’ulivo, curiosa ed emozionata. Quel che vide la lasciò a bocca aperta per lo stupore. Era convinta di conoscere quei luoghi a memoria. E allora, da dove spuntava quella casetta bianca? Si stropicciò gli occhi incredula e poi diresse lo sguardo indietro verso l’albero amico: possibile che si fosse sbagliata in tutto, che avesse confuso campo, ulivo e direzione? Chiuse gli occhi e li riaprì, per assicurarsi che fosse tutto vero. Uno sbattere di ciglia veloce, come per non farla mai davvero scomparire dalla sua visuale e la casetta era ancora lì, davanti a lei.

Una casetta antica ma carina, con le vecchie mura bianche ormai scrostate e al centro della quale spiccava una porta giallissima. Non un giallo legnoso, spento o opaco come aveva visto in altri edifici semi-abbandonati. No, quello era il giallo più bello che avesse mai visto. E perché la vernice sulla porta sembrava appena passata?

Questa scalò la classifica delle cose importanti da dire in serata alla sorella.