Avrebbe voluto già correre da lei, sapeva dove trovarla, e non le importava se l’avesse trattata con la solita superficialità o se l’avesse anche derisa di fronte ai suoi nuovi amichetti: quella era una scoperta straordinaria.

Ma… se le avesse chiesto di più? Se l’avesse accusata davanti a tutti di aver paura di andare da sola, per questo aveva ancora bisogno della sorella maggiore? Un po’ era vero, ma né Ilaria né gli altri stupidi suoi amici dovevano saperlo. A maggior ragione quel ragazzino con la bici rossa.

E poi la tentazione di avvicinarsi e magari anche entrarci era troppo forte. Era come trovarsi di fronte a un bel pacco di Natale, quello tanto atteso e così ben impacchettato che non si sa se scartarlo velocemente per scoprire il contenuto o stare attenti a non rovinarne la carta. Assurdo era solo che la porta gialla sembrava il regalo ma il pacco intorno non sembrava poi così tanto bello.

«Mannaggia, perché non potete parlare e aiutarmi?» disse portandosi il barattolo al viso e rivolgendosi agli insetti. «Basta, io vado!», si incitò. Si avvicinò, guardinga, e, assicuratasi che non vi fosse qualcuno in arrivo, giunse davanti alla porta. Inclinò la testa sulla spalla destra, come a cercare di vederla da ogni angolazione. Neanche si accorse che aveva contemporaneamente allungato il braccio per toccarla. Era ruvida e calda. Passò la sua mano per tutta la lunghezza e poi sul muro bianco: non c’era alcun campanello, nessuna cassetta delle lettere, nessun cognome che indicasse chi vi abitava, se qualcuno davvero ci abitava. Che fosse la casetta dei sette nani? Ma che andava a pensare, era ormai grande per credere nelle favole!

Chi può vivere in un posto così? Anche se lei, pensò, ci avrebbe vissuto volentieri. Quel piccolo edificio così raccolto e in armonia con la natura la faceva sentire a suo agio, anche se un po’ la intimoriva. Non staccò la mano dalle mura, come a voler mantenere un contatto fisico con essa e cautamente si avvicinò alla finestra. Per poter sbirciare dentro dovette di nuovo mettersi in punta di piedi. Oggi non faccio altro che cercare di essere più grande, pensò. Fece spuntare solo gli occhi, per prudenza. Che cosa avrebbe detto se qualcuno l’avesse vista? E se ci fosse stato un orco cattivo? Oh, ancora questa fissazione delle favole!

Sbuffò, si fece coraggio e cercò di vedere meglio cosa ci fosse all’interno. Il riflesso del sole le impediva di vedere e dovette portarsi una mano a fare ombra. Un urlo le si soffocò in gola quando riuscì a focalizzare meglio lo sguardo: la casa all’interno era così simile alla sua. Lo stesso tavolino tondo con quattro sedie intorno, di cui una con un cuscino sopra, lo stesso che Giorgia usava per sollevarsi un po’ e stare più comoda. Persino la tovaglia era uguale, con l’orlo rovinato dall’usura. Il divano era rosso come il loro, con le riviste di mamma e papà appoggiate sui braccioli e sopra vi era adagiato lo stesso pile dimenticato dall’inverno.

Non aveva alcun senso, come poteva essere? Cercò di alzarsi un altro po’ sulle punte per poter vedere meglio, ma in quel momento vide una persona che stava entrando. Lo spavento le fece perdere l’equilibrio e si trovò improvvisamente a terra. Represse un gemito e, dolorante, raccolse in fretta e furia il barattolo che le era caduto e scappò a gran velocità, questa volta incurante delle spighe che le graffiavano gli occhi.

Corse a perdifiato, quasi rincorsa dai suoi pensieri, da quella porta gialla e quella casa così strana. Corse più veloce che poteva fino a sentire il cuore quasi esploderle in petto e lei stessa non sapeva se fosse dovuto allo sforzo o alle emozioni, troppo grandi, troppo complesse, che la stavano attanagliando.

Arrivò in men che non si dica davanti al portone di casa sua. Doveva suonare, non aveva ancora le chiavi. Che cosa avrebbe detto? Cosa le avrebbero chiesto? Che ore erano? Il sole stava tramontando, doveva essere tardissimo e i suoi genitori si sarebbero sicuramente arrabbiati. Sentì i singhiozzi che stavano arrivando alla gola e con la mano cercò di fermarli. Non voleva piangere, non ora. Quando si sentì pronta, citofonò. Strinse forte il barattolo come per cercare un sostegno e pensò a quanto le importasse poco adesso che fosse ricco di insetti.

La mamma fece capolino sorprendendola con il suo solito sorriso che aggiusta tutto: «Giorgia, vieni che è pronto. Ti sei divertita oggi? Dai, raccontaci».

Ilaria le venne incontro abbracciandola: «Sei stata bravissima, oggi!», disse prendendole il barattolo dalla mano e osservandone il contenuto, «persino una forbicischia! Allora non ha proprio più paura di niente!». Giorgia sorrise d’impulso: proprio di niente, pensò ironica.

«Su, venite, che la cena si fredda», interruppe il papà con voce allegra. Giorgia non ci poteva credere: nessun rimprovero! Allora forse non era così tanto tardi, per fortuna. Si sedette sulla sua sedia col cuscino e si sentì serena: sì, questa era casa sua, non importava che quel nano o orco o chicchessia avesse gli stessi mobili.

 

La cena trascorse tra risate e chiacchiere, tra un piatto di spaghetti e una cotoletta e come dessert un gelato al cioccolato: non avrebbe potuto chiedere di meglio.

«Beh, allora» disse il papà «ci racconti cosa hai fatto oggi?». Fu allora che Giorgia si ricordò che voleva dare la grande notizia alla sorella, anche se dopo la scoperta della porta non le pareva più così grande. «Ho un colore preferito» disse timidamente «e anche uno spreferito», aggiunse per dare maggiore enfasi al tutto.

«Non si dice spreferito» la corresse il papà.

«Oh, lascia stare, Giulio, non essere sempre petulante. Spreferito è bellissimo e da oggi esiste», intervenne la mamma.

«Dai, non tenerci sulle spine, quali sono?» chiese Ilaria e parve davvero interessata. Allora non si sbagliava Giorgia, la questione delle preferenze era davvero importante per i grandi.

«Il mio colore preferito è il giallo, come il sole, come la corolla delle margherite e come…»

«I pulcini della signora Mancini» si affrettò a concludere Ilaria, levandole le parole di bocca «e anche come le stelle di notte e il sole di giorno!»

Sì, erano di nuovo affiatate, pensò sorridente Giorgia.

«E lo spreferito?» chiese Ilaria.

Giorgia titubò per paura che la sorella se la prendesse, ora che l’aveva finalmente riconquistata: forse sarebbe stato meglio mentire.

«Il mio è il rosso», confessò Ilaria per prima, intuendo il disagio della piccola.

«Anche il mio!», strillò entusiasta Giorgia. Ma non le avrebbe detto il perché, troppo rischioso. E poi non ce n’era bisogno: mamma e papà erano intervenuti con le loro preferenze e lei non aveva avuto bisogno di andare avanti.

La cena fu serena, divertente. Si respirava un’armonia che persino una bambina come lei percepiva nuova, diversa.