Sarà bene precisarlo subito, prima d’ogni possibile equivoco: Ulderico è tutto, fuorché un esperto d’arte. Va detto perché altrimenti sarebbe facile e logico trovare da ridire sulle sue valutazioni estetiche – e le chiamo così giusto per necessità di esposizione. Sarebbe di gran lunga più corretto, e lo è di fatto, parlare di pure e semplici sensazioni in una persona che di arte in genere, e di pittura in particolare, non ne mastica granché. Anzi, considerato che di mestiere fa il macellaio, si sarebbe facilmente portati ad escludere che in lui ci possano essere emozioni che esulino dal quotidiano maneggio di sanguigni pezzi di carne.
Ma se ne parlate con lui, magari usando un linguaggio piuttosto semplice e immagini non troppo ricercate, vi dirà che, in fondo in fondo, anche l’intagliare bistecche (così s’esprime) da un costato di bue è attività che necessita di una qualche forma di talento artistico. Perché se non lo sapete, spiegherà, non tutte le bistecche sono uguali e se le guardate bene, forse riuscirete a capire l’anima di chi brandiva il coltellaccio per lavorarle. Ma fatelo prima di metterle sul fuoco, aggiungerà, anche se quello che gusterete – e se lo gusterete – molto dipenderà dall’arte del macellaio.
Ma allora, mi si dirà, perché parliamo di Ulderico? O meglio: perché metto le mani avanti a proposito del suo gusto estetico? Domanda legittima, cui mi affretto a dare risposta. Ma dovrete avere la bontà di seguirmi nel suo negozio che – spero vorrete perdonargli questa libertà – sull’insegna porta pretenziosamente scritto “Boutique della Carne”.
È un ampio locale rettangolare e luminoso che nella parte anteriore, quella d’entrata per intenderci, è praticamente un’enorme, doppia vetrina affacciata sulla strada. Il lato opposto dell’ampia stanza è invece occupato dal bancone, fatto in gran parte di spaziosi contenitori di plexiglass pieni di carni e lavorazioni varie, sempre ovviamente di macelleria, in bella mostra. Dietro il bancone, nel suo camice bianco e quasi sempre lindo (non ho idea di quante volte al giorno lo cambi, non me l’ha voluto dire, ma ha sorriso allusivamente quando gliel’ho chiesto) trovate il mio amico pronto ad aiutarvi nella difficile arte di scegliere quale carne approntare sulla vostra tavola. Nelle due pareti che restano, il mio amico ha fatto mettere, una di fronte all’altra, due panchine di ferro e legno, in tutto e per tutto eguali a quelle che potete trovare nei parchi e negli spazi verdi, laddove almeno queste cose – parchi e spazi verdi – ancora esistono.
Perché – è sempre Ulderico a parlare – i clienti devono stare comodi, mentre aspettano il loro turno. Scegliere la carne non è cosa da fare in fretta. Tanti poi non sono mica giovani e, di conseguenza, potrebbero stancarsi ad aspettare in piedi. Non dice poi che, siccome è uno cui piace un bel po’ chiacchierare e pavoneggiarsi, le soste nel suo negozio possono anche essere molto lunghe, pure se, in qualche modo, divertenti. È sempre nell’ambito di questa logica che le pareti sopra alle panchine, oltreché essere bianchissime, sono state rese più vivaci: in quella di sinistra, più lontana dall’entrata, campeggiano una decina di foto fatte dallo stesso Ulderico, nell’altra vi accoglie la riproduzione di un quadro, trasformata in gigantografia, che occupa quasi tutta la parete.
Non starò, ora, a parlarvi delle foto, se non giusto per dirvi che sono paesaggi, fatta eccezione per quelle che ritraggono le due figlie del nostro fotografo “dilettante e a tempo perso”, come dice lui con reale modestia quando qualcuno gli fa i complimenti per quella piccola mostra e per le bambine. Sarebbe un argomento interessante, ma preferisco invece parlare del quadro che occupa quasi per intero l’altra parete.
Intanto, come ho già detto è enorme; una volta m’ha raccontato ch’è stato molto complicato fare quella riproduzione. Prima di tutto per le dimensioni, assolutamente insolite, e, subito dopo, perché per lui era fondamentale che i colori fossero proprio quelli dell’opera originale. E pare che non sia affatto facile avere un risultato del genere: Ulderico non ha mai voluto dirmi quanto gli è costato questa sorta di sfizio. Non è tipo da mettersi in mostra con esibizioni legate al denaro anzi, quando ci sono di mezzo i soldi, vien sempre preso da uno strano pudore, decisamente raro, se consideriamo che è un commerciante.
Forse è il caso che sprechi qualche parola sul personaggio di questa storia ed anche su di me, per aiutarvi a capire quello che sto raccontando. Sono un comunissimo ed anonimo professore di liceo che, saltuariamente frequenta la citata Boutique della Carne perché, prescindendo dai rapporti col proprietario, i prodotti sono veramente di qualità. Ma se quello può essere senz’altro stato il motivo che mi ha spinto a varcare quella soglia la prima volta, devo dire che da subito la frequentazione tra me ed Ulderico ha preso una piega tutta particolare. Quel fatidico giorno avevo con me un libro di poesie ed un pacco di compiti di una delle mie classi da correggere. Per qualche strano motivo, che ora mi sfugge, non portavo con me la solita vecchia borsa, scura e perennemente rigonfia e, di conseguenza, le suddette cose le tenevo in mano. E andavo piuttosto di fretta: avevo invitato a pranzo la mia preside. Era (ed è) una bella donna che… insomma, non sto qui a raccontarvi le mie cose personali! Sappiate solo che per lei avevo un debole ed era la prima volta che accettava il mio invito, dopo una lunga e sconfortante serie di rifiuti. Al punto che questo suo inatteso sì m’aveva praticamente preso in contropiede ed ora volevo a tutti i costi fare bella figura. Per questo avevo deciso d’entrare da Ulderico ch’era sì famoso per la qualità delle sue bistecche, ma anche per i prezzi ch’erano (e sono) anch’essi di prima qualità, purtroppo. Ma per me quella donna, la preside, era importante e non solo perché da lei dipendeva molto del tranquillo andamento del mio avvenire professionale… ma questo l’ho già accennato; insomma pensavo valesse la pena affidarsi nelle mani giuste e così mi son deciso a varcare quella soglia. La Boutique era quasi deserta, anche perché mancava un niente all’orario di chiusura; lui m’aveva squadrato con una occhiata indagatrice mentre aspettavo il mio turno contemplando proprio la gigantografia alla parete. Si trattava di un’opera che conoscevo: La Gazza di Claude Monet, dipinta dal maestro francese tra il 1868 ed il 1869, come recitava una targhetta in ottone che era stata posta sotto il quadro stesso, alla maniera di quanto si fa in genere nei musei. Ma lì – val la pena ricordarlo, non eravamo in un museo, anzi. Già questo fatto, la targhetta, era sorprendente e mi colpiva. Poi ero affascinato da come quel dipinto, di sicuro molto bello in originale, acquisisse una dimensione ed un spessore impensati in quella grandezza spropositata.
Vedo però che farei bene a descrivere cosa rappresenta il quadro in questione, a beneficio di chi non l’abbia presente. In realtà, non c’è tantissimo da dire: si tratta di un paesaggio coperto dalla neve. In primo piano c’è una sorta di muretto (ma potrebbe anche essere una siepe) coperto di neve, che parte dal lato destro dell’osservatore ed occupa quasi tutta la larghezza del dipinto, interrotto da un piccolo, rustico cancello di legno tutto spostato sulla sinistra. Il cancello è chiuso e subito dopo riprende il muretto o siepe che sia, che però fa angolo verso l’osservatore, dando il primo impulso alla prospettiva che si accentua con due filari d’alberi che paiono partire poco dietro il cancelletto per perdersi nell’orizzonte dove cielo e neve si fondono. Dal lato destro del cancelletto, dietro gli alberi del filare, s’intravede una casa bassa e lunga. Non ci sono finestre ed il tetto è completamente coperto di neve, darebbe quasi l’idea d’una stalla se non fosse che si vedono ben due camini emergere dalla neve del tetto il cui fumo, se c’è, si perde tra i rami degli alberi, spogli, ossuti e anch’essi coperti di neve, ovviamente.
Ma quello che trasforma questo bellissimo paesaggio in qualcosa di magico – e su questo sono totalmente d’accordo con Ulderico – è la presenza d’una piccola sagoma nera appollaiata proprio al centro dello sbilenco cancelletto, sull’ultimo bastone orizzontale della struttura. Che sia un uccello, è fuor di discussione, che sia una gazza ce lo dice il titolo. È in effetti una sagoma nera nella parte alta, con la testa di profilo a mostrare il becco, mentre da metà del petto in giù diviene grigia e tale resta fino alle penne della coda. Anche su questo punto io e Ulderico siamo d’accordo: sembra più un piccione, vuoi per la distribuzione dei colori, vuoi per la grandezza e la forma. A meno, dice lui, che le gazze francesi dell’800 non somigliassero ai piccioni. Le gazze italiane, mi assicura col suo passato di cacciatore di cui però non si vanta, sono più grandi ed hanno un piumaggio che, in certe condizioni, pare a strisce orizzontali bianconere, come quelle della Juventus dice lui, solo che quelle delle magliette dei calciatori sono verticali. Non mi intendo di calcio e poco m’importa se corrisponda a verità anche l’altra similitudine che, sempre lui, vede e cioè che gazze e Juventus siano egualmente ladre… col tempo abbiamo, sul discorso calcio, stilato una specie di trattato di non belligeranza nel senso che lui perdona la mia ignoranza in proposito, ma rinuncia a decantare più di tanto le maggiche virtù della sua maggica Roma, con le doppie a sottolineare che semo de Roma, sebbene, ad essere precisi, siamo solo in un paese vicino alla capitale. Quello che invece condividiamo è che senza quest’uccello, quale che sia, appollaiato sul bastone, il quadro sarebbe un bel paesaggio innevato e nulla più. Invece così diviene un mondo vivo e pulsante nel quale chi guarda sente la neve scricchiolare sotto le scarpe ed i lontani muggiti delle bestie nella stalla (se è una casa non cambia: a piano terra allora si tenevano sempre le mucche ed animali vari). Il tutto nel candore ovattato della neve.
D’estate, sostiene Ulderico, potrebbe anche spegnere il condizionatore, tanto è il fresco che emana da quella meraviglia e d’inverno… beh, d’inverno, quella visione ti fa venir voglia di stare davanti al camino, magari con una bella bistecca sui carboni, no?
Avreste forse il coraggio di dargli torto? Anche lo aveste, sarebbe sbagliato, perché l’entusiasmo che quest’uomo nutre verso il suo dipinto (ormai è come l’avesse fatto lui, non è una questione di proprietà) è innocente, come quello di un bambino che sente suo il cucciolo che gli avete regalato a natale ed arriva anche a fargli male mentre se lo stringe al petto come fosse il bene più prezioso. E se anche voleste fare solo gli spiritosi, come qualche volta m’è capitato di fare, vedreste nei suoi occhi come spegnersi una luce, quasi che così facendo buttaste via qualcosa di prezioso. Non capirebbe che scherzate, lui segnerebbe un meno sulla vostra colonna nel suo personale quaderno dei clienti e, forse, la prossima volta, non metterebbe via per voi quel taglio speciale. Ma non ce l’avrebbe mai con voi: tanto la bellezza della gazza è qualcosa che nessun essere umano può inquinare e voi restate sempre un cliente da rispettare, anche con qualche meno che non depone granché bene per voi.
Anche io, all’inizio, qualche meno l’ho collezionato. Mi salvò però quello che avevo in mano quel primo giorno: compiti e libro di poesie. Se infatti ebbi allora della carne eccezionale fu merito di quegli oggetti, visto che m’ero subito inguaiato prima rispondendo con distratta noncuranza ad una sua battuta sul risultato di una partita di calcio che aveva citato e, subito dopo, esprimendo un atteggiamento perplesso di fronte a quel quadro che, pur avendolo intravisto passando, m’aveva colpito per la sua incredibile grandezza e per la sua presenza in quel locale che, di primo acchito, mi pareva incongrua e fuori luogo. La fronte di Ulderico s’era aggrottata nello sforzo di comprendere se quella che stavo facendo era una critica o un complimento ed io, che avevo capito d’aver messo piede in un campo minato, m’ero un po’ arrampicato sugli specchi per recuperare terreno. E, apparentemente, le mie parole parevano esser servite allo scopo. Solo un po’ di tempo dopo, quando una certa raggiunta confidenza ci aveva permesso di parlare con libertà di quel nostro primo incontro/scontro, m’aveva rivelato che se avevo ottenuto il mio ottimo pezzo di manzo (ch’era servito con la mia illustre preside, oh se era servito!… ma questa è un’altra storia) non era certo per le mie chiacchiere. In realtà era stato quel libro di poesie e quei compiti in bella mostra a far colpo sul mio amico. E se ora ve ne state chiedendo il perché, la risposta forse vi farà scoppiare a ridere – di primo acchito avrei riso anche io, se lui non mi fosse stato davanti: intendeva farmi leggere le sue poesie perché, nel tempo libero, oltre a fotografare, scrive poesie. Ed io ero, ai suoi occhi, la persona giusta per farlo, visto che, anche se non fossi conosciuto nel quartiere come professore, sarebbe bastato quello che avevo in mano a farglielo capire.
Ulderico, l’avrete forse capito, è una persona semplice e schietta; ha smesso di studiare molto presto e la calligrafia esitante ed un po’ grossolana con cui ha riempito le pagine dei vari quaderni che m’ha fatto leggere conferma ampiamente che anche quando studiava non doveva essere proprio il primo della classe e neanche il secondo. Ma le sue poesie non sono malaccio. Se ora state pensando che il mio giudizio sia inquinato dal fatto che continuo a frequentare la sua boutique per i miei acquisti “carnivori” (sarebbe forse più giusto chiamarli investimenti), vi sbagliate di grosso. Di certo la letteratura italiana non verrà sconvolta dalle sue opere (che forse pubblicherà a sue spese per fare un regalo alla madre, assai presente nei suoi versi) e non ho mai barato con lui sull’argomento. Ma trovo che sia impareggiabile che esista ancora qualcuno che, mentre lavora col suo coltellaccio a ricavare bistecche e spezzatino, con la testa cerchi di trovare un verso poetico che nobiliti i suoi gesti ed il suo orizzonte.
E poi c’è la sua Gazza: una volta superato lo sconcerto del primo momento, ho cominciato ad apprezzarne tanto la presenza che il significato. Anzi, comincio a pensare che se in molti esercizi commerciali si seguisse l’esempio di Ulderico, forse il mondo sarebbe più vivibile e più sereno.
Ieri il mio amico, mentre aspettavo che preparasse per me una tasca di vitella per farne un arrosto morto, m’ha confessato che, se il suo camice è così pulito è perché, quando è solo nel negozio, certe volte va a farsi un giro su quella neve candida e non vuole, per nessun motivo al mondo, macchiarla di sangue. E Ulderico è sempre sereno e sorridente (anche se la sua Roma le prende) perché sa che, quando si stancherà di lavorare e vorrà ritirarsi, per lui sarà qualcosa di più che andare in pensione: quel giorno, appunto, entrerà nel quadro, fisicamente, romperà l’incantesimo della neve immacolata, si avvicinerà al cancelletto, lo aprirà (facendo volare via la gazza, o di qualunque uccello si tratti) e si sentirà finalmente arrivato a casa.
Ed io sono un professore privilegiato perché so che quando parla così è lo stesso uomo che, in certe sere solitarie, mi fa tenera compagnia con le sue poesie.

(Pino Chisari)