Cara professoressa,

mi perdoni se le scrivo dopo tanti anni, ma lasci che mi presenti: sono un suo vecchio studente di cui forse si ricorderà, o più probabilmente no, tanti ne saranno passati sui suoi banchi che non posso pretendere di aver attirato la sua attenzione.
O forse si. Mi perdoni l’immodestia, ma se è vero che sono stato a suo dire l’alunno che scriveva meglio tra quelli che ha conosciuto – e comunque l’unico a vincere concorsi internazionali fino ad allora – posso provare ad immaginare che non ce ne siano stati molti altri nella sua successiva carriera.

Adesso forse si ricorderà di me, o perlomeno ricorderà le nostre frequenti discussioni, ma non è per questo motivo che le ho scritto e neanche per risvegliare un ricordo del passato in sé piacevole.
Come ebbi a dirle una volta, io non amo ricordare il passato, lo considero chiuso, archiviato, “passato”, appunto, e anche se la mia memoria mi consente di dimenticare ben poche cose, tuttavia, o forse proprio per questo, preferisco lasciarle nelle loro cellette ben sigillate.
I magazzini servono a questo.

Le scrivo invece a proposito di un mio tema, su cui avevamo discusso senza arrivare ad una vera e propria conclusione.
Il titolo era qualcosa sul tipo “Vorrei essere…” e invitava ad esprimere attraverso la fantasia la propria visione della vita.
Io avevo scritto che mi sarebbe piaciuto essere un animale (un gatto, per la precisione, ma questo non c’entra: a me piacciono particolarmente i gatti, ma un cane, un orso o una lontra andavano bene lo stesso) e quando lei lo ha letto in classe mi ha chiesto perché avessi fatto questa scelta, inusuale ma fino ad un certo punto.
Anche altri infatti avevano pensato ad animali, la ragazza della terza fila – Giulia, si chiamava – aveva fatto la stessa scelta “per avere un magnifico pelo ed essere accarezzata continuamente”, ma quella che era stata davvero diversa era la mia risposta.

“Per essere immortale” avevo detto. E nell’aula era sceso il gelo.

Io avevo solo diciotto anni, lei ne aveva trentanove (mi perdoni se mi sono informato, è bastata un po’ di ingegneria sociale, non ho dovuto neanche hackerare l’anagrafe comunale) e quindi eravamo tutti e due troppo giovani, io per spiegare e lei per capire. Capivamo con la ragione, ma non col cuore, con lo spirito, ed era un ben misero comprendere.
Adesso che molti anni sono passati e la vita ha fatto girare più volte la sua clessidra scandendo il nostro tempo, sicuramente sa cosa intendevo: mi riferivo alla consapevolezza di vivere, il dono maledetto che solo noi esseri umani possediamo.

Il frutto avvelenato, il pomo raccolto dall’albero del bene e del male – l’albero della conoscenza – che ci ha fatto scacciare dal Paradiso e ci ha reso mortali. Nel momento in cui sappiamo di dover morire, cara professoressa, non possiamo fare a meno di vivere nell’angoscia, perché questo è il frutto della mortalità.

Certo, finché siamo giovani possiamo fare a meno di pensarci, disprezzare la vita, giocarci, rischiarla in automobile o in mille assurde maniere, ma invecchiando sentiamo il tempo sfuggirci tra le mani e tentiamo in tutti i modi di aggrapparci a qualcosa per tenerci a galla, un’illusione, una persona giovane vicino da cui trarre una parvenza di vita, Dio.

Non è che non creda in Dio, professoressa, glielo assicuro, non posso permettermi questi lussi, ma il fatto è che la stessa mela avvelenata che mi ha reso cosciente mi impedisce di mentire a me stesso sapendo di farlo, e dunque non posso pensare a un Dio a mio uso e consumo. Cerco Dio come fanno tanti, disperati e no, lo cerco nelle tracce che dicono abbia lasciato nel mondo, lo cerco nelle Scritture, nel mondo, in me stesso, ma non ho la certezza che vorrà mai farmi la grazia di illuminarmi: come potrei averla?

Frattanto non mi resta che rimpiangere quel peccato che nessuno di noi ha commesso, il peccato originale, intendo, quello che donandoci la conoscenza ci doveva rendere simili a Dio ma ci ha regalato invece la morte.

Non cambierebbe lei tutta la sua conoscenza, tutta la sapienza del mondo, con la semplice inconsapevolezza di esistere? Non è questo l’essere immortali?