Tranquilli: mostrare sembra facile, ma non lo è affatto. Raccontare fa parte della nostra quotidianità: quando io parlo ad un amico del mio viaggio a Parigi, gli racconto, non mi metto ad interpretare le mie esperienze sulla torre Eiffel o il mio stupore di fronte ai capolavori del Louvre perché se ne faccia un’idea migliore, al massimo gesticolo, visto che sono italiano. Così, se illustro le diapositive delle mie vacanze racconto come erano quei luoghi e per fortuna le diapositive sono passate di moda: poca gente usa i proiettori da computer).
Però se dico una barzelletta la interpreto, cercando di dare le giuste inflessioni ai personaggi e la corretta enfasi alla battuta finale. Perché? Perché altrimenti la gente non ride, e chi racconta una barzelletta è gratificato se il pubblico mostra di apprezzarla (non vale se a raccontarla è il capoufficio), mentre quando parliamo dei nostri viaggi ci interessa soltanto quello che noi diciamo, tanto lo sappiamo benissimo che gli altri si annoiano e guardano di nascosto l’orologio.

Quando scriviamo succede qualcosa di analogo: vogliamo che il nostro lettore si appassioni o che si annoi a morte? Sono certo che tutti sceglieranno la prima ipotesi, anche perché il lettore ha degli indubbi vantaggi nei confronti dell’uditorio di una diaproiezione: gli basta un gesto per chiudere il nostro libro ed un pensiero per mettere una croce sopra a noi e a tutte le nostre opere future.

Tralasciando per ora gli ulteriori motivi per cui è meglio mostrare che raccontare, cerchiamo di capire a grandi linee come fare. Gli elenchi che seguono, come vedrete, sono sempre i soliti, quelli che si leggono in ogni libro che parli di scrittura creativa, da King a Gardner a… chi volete voi. Forse non saranno tutti efficaci, ma se sono così ripetuti un motivo ci sarà.

A) Andiamoci piano con gli aggettivi e gli avverbi: non tutti, soltanto quelli inutili, ma quanti sono!
Consideriamo un brano di Calvino:
«Un’alzata di vento venne su dal mare e un ramo rotto in cima a un fico mandò un gemito. Il mantello di mio zio ondeggiò, e il vento lo gonfiava, lo tendeva come una vela e si sarebbe detto che gli attraversasse il corpo, anzi che questo corpo non ci fosse affatto, e il mantello fosse vuoto come quello d’un fantasma. Poi, guardando meglio, vedemmo che aderiva come a un’asta di bandiera, e quest’asta era la spalla, il braccio, il fianco, la gamba, tutto quello che di lui poggiava sulla gruccia: e il resto non c’era.»
Cosa intende dire Calvino in questa scena? Che il visconte ha metà corpo, e lo fa attraverso una descrizione dinamica, viva. Quanti aggettivi ha usato? Soltanto due.
Per quanto riguarda gli avverbi, specialmente quelli in -ente il discorso è ancora più facile: sono quasi sempre inutili e servono solo ad appesantire la frase e a mostrare che l’autore è insicuro di quello che scrive:
“Luigi ansimava affannosamente.”
Che bisogno c’era di precisare? Uno che ansima non respira affannosamente?
“Luigi chiuse la porta violentemente.”
Non è meglio “Luigi sbatté la porta?”
E così via. Impariamo a vedere come una frase possa essere migliorata attraverso una diversa costruzione o l’uso di sinonimi, e cerchiamo di essere semplici: il lettore ce ne sarà grato, lasciamo la scrittura elaborata a Joyce e Proust!

B) Usiamo immagini concrete per descrivere i nostri personaggi, limitando il più possibile le informazioni cadute dall’alto: in questo modo sarà più difficile cadere nell’infodump e aiuteremo i lettori ad immedesimarsi con loro.

C) Attenzione ai tempi: lo scorrere del tempo deve scaturire dalle azioni dei personaggi. Se il nostro racconto è infarcito di avverbi di tempo (toh!) vuol dire che c’è qualcosa che non quadra, che l’azione non scorre correttamente.

D) Impariamo ad essere precisi: l’approssimazione indebolisce quello che vogliamo dire, per cui gli avverbi (…) di approssimazione ci riportano quasi sempre nel raccontato.

E) Facciamo un uso ragionato dei verbi: come sappiamo tutti, in italiano usare il presente, l’imperfetto o il passato remoto nel descrivere un’azione cambia molto la sua percezione da parte del lettore. In particolare l’imperfetto è un tempo semplice da usare ma molto difficile da gestire, perché tende ad imbalsamare l’azione, a renderla statica. Sta al narratore utilizzarlo con discrezione, per esempio come sfondo temporale in cui inserire un’azione fulminea:  “Mentre Luigi camminava lungo il marciapiede, il killer esplose alcuni colpi di pistola.”
Come si vede, in questo caso ci sono due azioni che si svolgono contemporaneamente: mentre Luigi sta camminando, che è un’immagine continuata nel tempo, vediamo che il killer spunta dal nulla e gli spara, anzi, “spara alcuni colpi di pistola”, il che ci fa presumere che siano diretti a lui ma lascia aperta la strada alla possibilità che siano andati a vuoto, o addirittura che abbiano colpito qualcun altro (se avessimo scritto “il killer gli sparò” avremmo dovuto arrampicarci sugli specchi per dire che non l’ha ucciso, perché il significato che balza agli occhi è proprio quello). La seconda azione è immediata, veloce, più o meno brutale a seconda delle nostre scelte, ma si inserisce comunque bene nella successione temporale per dare l’idea del dinamismo.
Allo stesso modo è da considerare attentamente (leggi: da evitare il più possibile) la forma passiva, perché indebolisce l’azione, la rende statica: non “Luigi si era sdraiato” ma ” Luigi si sdraiò”, non “Lucia si era tagliata con il coltello“, ma “Lucia si tagliò con il coltello”, a meno che non raccontiamo una scena accaduta nel passato e messa nel cassettino della memoria. Raccontiamo, appunto.
Non dico con questo che la forma passiva (l’uso del verbo essere, in pratica), sia da evitare, anche se c’è chi l’ha fatto, ma facciamo attenzione: la vita è già difficile così, perché complicarcela?

Mostrare è raccontare cercando di mettere il lettore nei panni dei protagonisti. In che modo? Utilizzando i loro canali sensoriali nello stesso modo in cui noi utilizzeremmo i nostri in una situazione analoga. Non diciamo che il cibo che Marco stava assaggiando al ristorante sembrava andato a male, ma semmai che “Marco sentì sul palato il sapore acido del cibo andato a male”… Bleah, non crea già una sensazione di disgusto? E così via, sfruttiamo i canali primordiali!

F) I dialoghi: Punto dolente. Ci sono grandi scrittori come Lovercraft che hanno scritto dialoghi disastrosi, altri come Leonard Elmore che ne hanno scritto di efficacissimi, tanto da indurre a pensare che i dialoghi soano qualcosa che ha strettamente a che fare con un talento specifico. Sarà anche vero, ma questo non deve impedirci di cercare di migliorare: non arriveremo forse mai a livelli eccelsi, ma probabilmente eviteremo di far cadere le braccia ai nostri lettori, non subito, almeno. Consideriamo questo brano di Lansdale:
“L’auto non era eccessivamente ammaccata.
Dissi: «Adesso è più carina.»
«Ricordami di ammaccare il tuo furgone quando torniamo a casa, visto che ti piace tanto.»
«Mentre tu cambi la gomma, darò un’occhiata in giro. Questa zona ha un che di familiare.»
«Adesso ti sembra familiare. C’è una gomma da cambiare, ed ecco che conosci il posto come il palmo della tua mano.» «Ho soltanto detto che mi sembra familiare. Torno presto.»
«Quando?»
«Quando riterrò che tu abbia più o meno finito di cambiare la gomma» “
Certo, Lansdale è un genio per i dialoghi, ma anche noi possiamo provare a rappresentarci mentalmente la scena in cui i nostri protagonisti si scambiano le battute. Sono credibili?
Il dialogo è diretto: quello indiretto non è dialogo, è raccontato, e della peggiore specie:
“Luigi disse a Mario che avrebbe dovuto cambiare la gomma…”
No comment!

G) Il punto di vista: E’ una scelta che si fa necessariamente quando ci mettiamo a scrivere qualcosa, ma ognuno ha le sue modalità preferite, in cui si trova meglio e fatica meno a scrivere, quindi tenderà ad utilizzare sempre quelle. Consideriamo le diverse possibilità, per vedere quali sono le loro caratteristiche:

– La prima è il classico Io narrante, cioè la scrittura in prima persona. E’ una modalità che portando all’interno del personaggio induce il lettore a condividerne le sensazioni, quindi a mostrare. E’ anche un tipo di scrittura piuttosto limitativa, che non si adatta a tutte le situazioni in quanto narratore e punto di vista del personaggio coincidono e la storia non riesce ad assumere un ampio respiro. Se il lettore si sta identificando con Marco che fa il detective, si troverà a disagio saltando all’improvviso nei panni di Luigi che è un malavitoso o di Lorena che fa la casalinga, è la moglie di Marco e l’amante di Francesco. Ogni personaggio conosce solo la sua parte di storia, ma la conosce tutta, quindi non è facile elaborare trame complesse che siano credibili e non disorientino il lettore. E il lettore di solito non ama essere disorientato.

– Se invece il narratore è in terza persona, le possibilità aumentano: si può essere il classico narratore omniscente, che dalla sua posizione privilegiata spiega e commenta tutto quello che succede. Lui sa tutto, può anche rimanere impersonale ma non farà mai partecipare il lettore alla storia, lui semplicemente la racconta. Per fortuna le altre casistiche sono meno disperate: il narratore può osservare i fatti dall’esterno ma senza mostrare di conoscerli. In questo modo ne saprà meno di qualsiasi personaggio (che in prima persona almeno conosceva i suoi) e sarà neutrale rispetto al racconto, ma avrà grosse difficoltà a coinvolgere il lettore e farlo appassionare alla sua storia. Questa modalità è definita a focalizzazione esterna. Esiste infine (per fortuna) la possibilità di narrare in terza persona, ma rimanendo vicini al punto di vista del personaggio: in questo modo si potrà scegliere di volta in volta se raccontare gli eventi o accedere alla sua coscienza e mostrarli, sfruttando le tecniche viste sopra. Questo è il narratore interno in terza persona ed è il tipo di scrittura più usata.

Quali potrebbero essere le conclusioni di questa breve panoramica? Riflettere su quello che stiamo scrivendo, prestando attenzione ai campanelli d’allarme che ho elencato e ai tanti altri segnalati nei testi dedicati all’argomento, ma soprattutto contenersi: quella spiegazione che ci viene da inserire perché non siamo sicuri che la scena sia ben chiara, quella descrizione evocativa che ci piace tanto, quei particolari leziosi che ci affascinano… ecco, probabilmente tutto questo è inutile e non farà altro che appesantire la narrazione e annoiare il lettore.
E naturalmente evitiamo le elencazioni e le liste della spesa!

E questa?  Questa è una descrizione manualistica, non un racconto, quindi sono giustificato! 🙂