Che bello avervi qui riuniti miei cari nonni. Come non vi ho mai visto in vita, sempre a proferir veleni gli uni degli altri… No, hai ragione, tu no Arcadio, tu non sapevi cosa fosse la cattiveria. Tenero verso l’umanità come pochi uomini potrebbero. Un bambino cresciuto.
Tornavi dal grande magazzino nel quale continuavi a lavorare dopo la pensione, dove riecheggiava il tuo nome che suonava allegro di corsia in corsia, tornavi sempre con qualcosa per me quando sapevi di trovarmi. “La patatona di nonno!”. “Nonnooo! Che mi hai portato?”… e immancabile usciva un piccolo oggetto dalla tua tasca. Quando un giocattolino, quando una di quelle piccole miniature di oggetti reali e di fantasia in argento, che mi facevano letteralmente impazzire: cavalli, la carrozza di Cenerentola trainata da ben quattro destrieri, un grammofono, motocicletta con sidecar annesso… li conservo in un barattolo e ci giocano le mie bimbe, ammaliate da quella ricchezza di dettagli, come lo fui io.

Cerco di catturare e fermare i ricordi precedenti il giorno di quella telefonata che mi tolse il fiato, quel frastuono confuso di cui sento ancora l’eco. La mia prima vera perdita. La prima volta che ho sentito che qualcuno che amavo e che mi adorava no, non c’era più. Te ne sei andato mite, come avevi vissuto, senza disturbo, con una camomilla per alleviare il tuo mal di stomaco, seduto al tavolo bianco della cucina, nella casa che fu la mia prima casa in quei tre anni in cui i miei genitori furono ancora una famiglia dal momento della mia nascita.

La sera prima stavo passando da quelle parti e mi era balenata l’idea di una improvvisata, ma no, era troppo tardi. Convivo da allora con la sensazione che quella scelta chissà, se fosse stata opposta avrebbe potuto dirottare il tuo destino e regalarci un po’ di tempo ancora.

Ma il torto più grande che potrei farti è sostituire quell’evento alle mille risate che hai saputo innescare. Al caffelatte che portavi a letto a me nonna ed Emilia per farci svegliare quando passavamo la notte da voi. Al tuo volto alla Pasolini, dalle lenti gialle, grosse e spesse con quella montatura nera, così anni ’70. Alla pallonata che mi tirasti in faccia, per la quale dissimulai il dolore, perché mai avrei voluto farti restare male. Ricordi nonno quella vacanza in Sardegna? Tutto il campeggio iniziò a chiamarti nonno. Quel gruppo di ragazzi toscani ti aveva praticamente adottato. Una forza della natura.

E tu, che c’è? Perché storci la bocca, nonno Vito? Sì, anche te tutti chiamarono “nonno” in quella settimana bianca a Pinzolo, ma per un’altra ragione. Fui io, che bloccata sulla montagna iniziai ad urlare “Voglio il mio nonnoooo!”, ad accendere un vero tam tam. Il maestro di sci, non riuscendo ad avere la meglio sulla mia caparbietà, diede il via ad un richiamo alpino che ti fece poco dopo comparire fiero, pronto a condurmi a valle a spazzaneve.
Che tu, Salvito, eri un tipo diverso… ma non del tutto, solo in apparenza direi, che il mito del Superuomo con te aveva attecchito un po’ troppo. “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, “Si vabbè”… Eppure, te la mangiasti la minestra di spaghetti crudi ammollati nell’acqua che ti portai mentre eri intento ad aggiustare qualche pezzo di casa con i tuoi metodi strambi… che oggi ogni volta che qualcuno deve mettere le mani dove sei passato tu finisce col mettersele esterrefatto trai capelli. La mangiasti tutta, senza ombra alcuna di disgusto, sorridente come di rado. Mi guardavi ed era amore. Per te sono diventata sciatrice, velista, nuotatrice, pattinatrice… che così ti potevi vantare di tanta bravura, di tanta avvenenza, come hai fatto prima di me con mamma, con zio e dopo con Filippo. Come avresti fatto con “Bella pupa” Elena se solo ne avessi avuto il tempo. Facevi così persino con i tuoi dalmata. Se odio l’agonismo, nonno, lo devo a te, in ogni contesto… ma fa niente, si può vivere anche senza. Ricordo che avevo sempre remore a presentarti amici e fidanzati, che dicevi tutto quello che ti passava per la testa. Li preparavo prima al famigerato primo incontro con nonno Salvito.

Ricordi quando diventasti dirigente, me lo dicesti al telefono, e mi incaricasti entusiasta di andare ad annunciarlo alla nonna e alla mamma, ed io tutta contenta, quasi accompagnata da squilli di trombe urlai “nonna, nonnaaaa, nonno è diventato deficiente!!”. Quella volta sì che ridesti anche tu.