Quel giorno ti ho chiamata per sentire la tua voce, sapendo che sarebbe stata una delle ultime volte. Non in generale. Una delle ultime, così.
Non puoi farlo troppo spesso, mi sono detta, o capirà.
“Prima di dirglielo facciamo altre verifiche”, abbiamo stabilito, o forse sarebbe meglio dire temporeggiato.
“Meglio sapere, conoscere bene il problema. Analizzare, soppesare, catalogare”.
Alla fine anche questo è toccato a mamma, che ha allegerito la dose con la speranza che qualcosa si potesse fare. E un po’ ci abbiamo creduto anche noi.
Anche se quel verdetto, “tre mesi”, c’era stato… ma non si può mai sapere.
Ti ho chiamata, quel giorno, assaporando ogni parola, ogni espressione della tua voce, che era ancora argentina quando parlavi con me. Era bello parlarti, incontrarti, ascoltarti, quando ancora non avevi consapevolezza che stavi per andartene.
Quel giorno potevo ancora giocarmi tutto il privilegio di non saperne abbastanza.
Potevo tacere la terribile verità.
E parlammo. Del più e del meno, del caldo africano e del mondo che impazziva. Della stanchezza, del lavoro, della casa che era stata tua, e poi di mamma e poi mia. E le bambine, che ti mancavano, ma che presto avresti visto per andare insieme al mare. Dei piatti che non sapevo ancora cucinare, della dieta che non riuscivo a fare, mentre tu non riuscivi più a mangiare…
e poi c’era un freddo strano che tornava, nonostante il caldo, sulla tua schiena, ogni sera.
La fame no, proprio non tornava la tua fame. Ed io che per buona parte della vita ho il ricordo di te morbida.
Sai cosa non ti ho raccontato: il giorno del tuo ultimo compleanno stavamo venendo a trovarti (che fosse l’ultima volta un po’ lo sapevo), che tu ci creda o no, un bug nel navigatore ha portato me e mamma proprio a San Lorenzo. Proprio li dov’era la tua casa. Lì dove hanno camminato le tue scarpe, riparate chissà quante volte. Dove è morto tuo padre sotto ai bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, quando eri ancora solo una bambina.
Guardo le mie oggi… avevi la loro età.
Nonna Agnesina è riuscita a sfamarvi facendo la sarta e zia Liliana è stata per te più che una sorella, una specie di seconda mamma, dicevi.
Una bambina amata e viziata da tutti.
Mi spiace che tu te ne sia andata quando il mondo non è ancora guarito da quest’assurda malattia: ha posto tanta distanza tra le persone. Tanti amici non potranno salutarti. Non potranno essere tutti lì per te. E anche noi siamo stati distanti così a lungo, pensando di avere molto più tempo.
Ma questo mio scritto è tutto per te, nonna, come quando ero bambina e scrivevo canzoni che ti colmavano di tenerezza e orgoglio. La mia fan più grande. Da sempre.Quel giorno ti ho chiamata per sentire la tua voce, sapendo che sarebbe stata una delle ultime volte. Non in generale. Una delle ultime, così.
Non puoi farlo troppo spesso, mi sono detta, o capirà.
“Prima di dirglielo facciamo altre verifiche”, abbiamo stabilito, o forse sarebbe meglio dire temporeggiato.
“Meglio sapere, conoscere bene il problema. Analizzare, soppesare, catalogare”.
Alla fine anche questo è toccato a mamma, che ha allegerito la dose con la speranza che qualcosa si potesse fare. E un po’ ci abbiamo creduto anche noi.
Anche se quel verdetto, “tre mesi”, c’era stato… ma non si può mai sapere.
Ti ho chiamata, quel giorno, assaporando ogni parola, ogni espressione della tua voce, che era ancora argentina quando parlavi con me. Era bello parlarti, incontrarti, ascoltarti, quando ancora non avevi consapevolezza che stavi per andartene.
Quel giorno potevo ancora giocarmi tutto il privilegio di non saperne abbastanza.
Potevo tacere la terribile verità.
E parlammo. Del più e del meno, del caldo africano e del mondo che impazziva. Della stanchezza, del lavoro, della casa che era stata tua, e poi di mamma e poi mia. E le bambine, che ti mancavano, ma che presto avresti visto per andare insieme al mare. Dei piatti che non sapevo ancora cucinare, della dieta che non riuscivo a fare, mentre tu non riuscivi più a mangiare…
e poi c’era un freddo strano che tornava, nonostante il caldo, sulla tua schiena, ogni sera.
La fame no, proprio non tornava la tua fame. Ed io che per buona parte della vita ho il ricordo di te morbida.
Sai cosa non ti ho raccontato: il giorno del tuo ultimo compleanno stavamo venendo a trovarti (che fosse l’ultima volta un po’ lo sapevo), che tu ci creda o no, un bug nel navigatore ha portato me e mamma proprio a San Lorenzo. Proprio li dov’era la tua casa. Lì dove hanno camminato le tue scarpe, riparate chissà quante volte. Dove è morto tuo padre sotto ai bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, quando eri ancora solo una bambina.
Guardo le mie oggi… avevi la loro età.
Nonna Agnesina è riuscita a sfamarvi facendo la sarta e zia Liliana è stata per te più che una sorella, una specie di seconda mamma, dicevi.
Una bambina amata e viziata da tutti.
Mi spiace che tu te ne sia andata quando il mondo non è ancora guarito da quest’assurda malattia: ha posto tanta distanza tra le persone. Tanti amici non potranno salutarti. Non potranno essere tutti lì per te. E anche noi siamo stati distanti così a lungo, pensando di avere molto più tempo.
Ma questo mio scritto è tutto per te, nonna, come quando ero bambina e scrivevo canzoni che ti colmavano di tenerezza e orgoglio. La mia fan più grande. Da sempre.
Prendo in prestito parole di qualche anno fa, che oggi mi aiutano a riprendere le fila di noi. Non so se oggi riuscirei.
A saperlo confezionare questo scritto, come fossi un’abile sarta (come tu sei stata e purtroppo non io), lo vorrei colmo dei nostri ricordi più belli, ma sono davvero tanti, e ci dovremo accontentare di questa, che è una piccolissima selezione.
Immagino le mie parole andare a disegnare un lieve sorriso sul tuo volto, sempre bellissimo, illuminando quel tuo sguardo giallo gatto ad ogni rilettura.
I miei ricordi di te iniziano con odore di burro fuso.
Tu, in piedi, indossi un grembiule a fiori, cucito con le tue mani. E mentre cucini mi ascolti con la stessa attenzione che si darebbe ad un adulto, facendomi sentire importante e sicura.
Proprio come poi ti ho visto fare con le mie bambine. Quella grande cucina era il cuore di una casa enorme, che adesso è casa mia. Questa casa è il luogo in cui ora scrivo di noi.
Per merenda mi facevi scegliere tra cose irresistibili, di cui mai smetteró di ricordare il sapore, come capita solo con i piatti provati da bambini.
Pane casareccio olio e sale, o con burro e zucchero. L’uovo fresco della gallina di Maria, intinto o sbattuto a zabaione.
Due volte a settimana, dopo la scuola, ero in acqua e nuotavo. E tu eri lì, dietro la vetrata, pronta a sfamarmi con un supplì direttamente nello spogliatoio. All’uscita da scuola non avevo potuto fare merenda per via della digestione, e poi diventavo un piccolo lupo affamato. Mentre divoravo il secondo supplì tu, con un inutile fon a gettoni, cercavi di ripristinare il mio stato asciutto. O giù di lì.
Con me parlavi spesso di cibo, e dei tuoi piatti forti, e forse già lo sapevi che per me nessuno sarà mai in grado di eguagliarli quei piatti. Che la pasta e fagioli come la fa la mia nonna…
A dire il vero la adoravi questa mia ingordigia: i tuoi figli ti hanno fatto tribolare con le loro bocche ermetiche. Non io. Io proprio no.
La cioccolata calda dopo il pattinaggio, per scaldare più te che me, perché io mi ero mossa, ma tu… Ti vedevo infagottata nel tuo cappotto pesante, in piedi, appoggiata alla balaustra, attenta a non perderti un movimento. Mi hai visto rinunciare anche a questo dopo tutto quel freddo. Al nuoto, alla barca a vela… Non sono diventata una campionessa, nonna, il fatto è che odio qualsiasi forma di competizione.
A proposito: chi se la dimentica Miss Italia sulla televisione a tubo catodico nelle calde estati di Cittadella, la casa al mare della quale mai smetteró di avvertire mancanza, ormai mi è chiaro. Un luogo così pieno di noi tutti. Ricolmo della mia fanciullezza, della mia adolescenza a tal punto da rendermi triste ad ogni ritorno adulto. Senza di te quella trasmissione, Miss Italia, non l’ho mai più guardata: contrasta con qualsiasi mia idea di donna. Ma con te, con i tuoi commenti spontanei e strampalati, devo ammetterlo, era da risate forti, con tanto di mal di pancia e occhi lacrimanti.
E i film in bianco e nero. Quanti ne abbiamo guardati? Quelli peró li amavo davvero, e in religioso silenzio, soprattutto quelli con Cary Grant.
L’Estate venivo a passeggiare nella Biblioteca Nazionale, dove eri impiegata. Un capitolo della tua storia dovrebbe riguardare l’ottenimento di quel posto…
Dovete sapere che nonna ha dovuto prendere il porto d’armi. Senza saper fare l’occhiolino e non sopportando, in modo assoluto, i rumori forti.
Provateci voi a centrare un bersaglio così!
Comunque alla biblioteca tutto era grande e bellissimo: il bar, i corridoi, gli ascensori e le tue colleghe, che ai miei occhi apparivano come attrici di una sit com anni ‘70, di cui tu eri la protagonista: per anni ti sono rimaste devote, a lustri e lustri dalla pensione. Leggevi loro le mie canzoncine, orgogliosa, quasi fossero i primi componimenti di Mozart. E loro, che ti volevano bene, accettavano questo supplizio di buon grado.
Quello sguardo di orgoglio l’ho visto quasi fino all’ultimo, e mi faceva stare bene. Mi faceva sentire speciale, come se avessi avuto un dono… Era bello parlare con te. Io ho sempre adorato parlare con te.
Nonno diceva “sembrate più due sorelle che si scambiano segreti”.
Un segreto però una volta lo disse lui a me, al telefono.
“Ti svelo una cosa: dì alla nonna che sono diventato dirigente!”
Ed io tutta felice sono corsa da te: “nonna nonna, nonno è diventato deficente!”
Al telefono questa estate, quella volta in cui ancora non sapevi, dicevi che erano belli quei miei nuovi disegni: quelli che ti avevo fatto vedere a casa. E anche quel video ti era piaciuto tanto.
“Sei sempre stata brava”, mi hai detto, “da quando eri piccola e disegnavi e scrivevi canzoni”.
A mamma e zio invece non lo dicevi quanto fossi orogogliosa. Ma lo dicevi sempre a tutti gli altri. Sempre.
Chissà come mai, ma crescendo si finisce col provare una specie di vergogna per quei sentimenti, quasi urlati da bambini. Subentra l’idea che basti saperlo, non c’è bisogno di dirlo. Ma, forse, non è proprio così. Forse questo è stato uno dei nostri errori. Ce ne sono stati. Non pochi. Ci sono stati quelli, c’è stato il dolore. Ma oggi voglio ricordare solo il bello. Solo quello. Come le vacanze al mare io, te, mamma e le bimbe. Le porterò sempre con me, quelle.
Pochi giorni fa hai avuto un momento diverso da tutti gli ultimi. In ospedale, con mamma, eri così allegra e sorridente che avete voluto chiamarmi.
Eri pronta per andare a fare una settimana bianca da zio in America, “Eh e che fa, prendiamo l’aereo!”.
Quante ne abbiamo fatte insieme di settimane tra la neve! Tutte le montagne conoscevano “il nonno”, che era l’unico a riuscire a portarmi a valle a spazzaneve quando mi prendevano i cinque minuti. E pure tu con lo spazzaneve eri una scheggia. Potevi farci le piste nere a spazzaneve!
Inutile dirti come il nostro cuore sia scoppiato di tenerezza perché eri proprio convinta di poter partire. Ci hai fatto ridere, e piangere, insieme.
Due giorni dopo è stato il tuo compleanno e non ci sono state torte su cui cascare di pancia, come quella volta che ti sei allungata un po’ troppo per brindare con zio, concedendoci uno dei momenti più divertenti di una intera vita. Quella luce di un paio di giorni prima si era già spenta.
Dicono che succeda spesso così. Brevi momenti di luminescenza. Qualcuno dice che si tratti degli angeli che chiamano.
Di qualunque cosa si fosse trattato, grazie mamma, per avermi chiamata, per averlo condiviso con me.
Due giorni dopo ti ho comunque portato gli album delle bimbe, che abbiamo sfogliato insieme e che tu hai provato a baciare.
Elena ha pianto tanto. A Cecilia lo dirò tra poco.
Lei sembra più forte, eppure oggi non so cosa aspettarmi perché era molto preoccupata per te. Non a caso il suo biglietto di compleanno quest’anno recitava “Come stai?”.
Ti vogliamo bene. Mancherai.