Il cambio di stagione, soprattutto quello dall’inverno all’estate, mi è particolarmente odioso. Chi mi conosce sa che io sono un animale invernale con il cuore mediterraneo, un paradosso. Chi mi conosce sa anche che amo i paradossi e non poco. Insomma, quest’anno ho aspettato più del dovuto per fare il consueto, inutile trasbordo da una parte all’altra dell’armadio di una quantità di capi di abbigliamento la cui maggior parte resterà al suo posto e non vedrà mai il sole perché alla fine ci infiliamo sempre nei panni che sentiamo più nostri, e più avanza l’età, più esiguo si fa il nostro reale guardaroba. Ogni anno cerco di disfarmi di una serie di “non si sa mai” accumulati più o meno  compulsivamente, inseguendo la chimera, falsissima, di poterli un giorno indossare nuovamente. Ho imparato a cogliere l’attimo, fuggentissimo e a rintuzzare il ripensamento e anche quest’anno sono riuscita a liberarmi di qualche zavorra. Ma tutti noi, accumulatori o meno, abbiamo le nostre reliquie, stracci a cui teniamo come a una persona, forse di più, brandelli di stoffa che in realtà lo sono di cuore perché legati a un evento, a un periodo, a qualcuno o a qualcosa che ha lasciato un segno nella nostra vita. Anche io ho il mio piccolo pantheon di stracci di cui sono gelosissima e di cui ricordo, uno per uno, i motivi per cui li conservo. C’è, però, al di sopra di tutti, un vestito al quale sono legata in maniera viscerale. A dire la verità è ancora in perfette condizioni, dunque ha una sua dignità di capo d’abbigliamento vero e proprio. E’ un abito blu con una piccola fantasia di disegnini bianchi, con il collo che si apre con due piccoli revers e tre bottoni d’osso, la gonna un po’arricciata in vita, di un tessuto molto morbido, indefinibile, che accompagna la figura, ma resta leggero. Un tipico modello anni ’50, avrebbe potuto essere un vestito di mia madre. Fu il mio primo acquisto ad una bancarella di abiti usati al mercatino di Antignano, a Napoli. I napoletani conoscono il principe dei mercati dell’usato che è il paese di Resina, alle falde del Vesuvio, dove da tempo immemorabile si trova davvero di tutto, dalle Lacoste agli stracci, bisogna avere fiuto, andare presto e perderci un bel po’ di tempo. Ma Resina non è proprio dietro l’angolo e non possedendo un mezzo di trasporto autonomo (in verità mai posseduto) quella mattina di più di 40 anni fa, incuriosita dal banco andai a frugare. C’era di tutto, davvero, erano i favolosi anni ’70 e vestirsi con abiti usati andava di moda: conoscevo molte figlie di papà finte hippy che vestivano così, salvo poi avere portafogli ben forniti, motorini, vacanze pagate. C’era, invece, chi lo faceva per necessità e anche un po’ per ideologia. Io appartenevo, manco a dirlo, al secondo gruppo.

Ma torniamo a quella mattina. Rimestavo tra le pezze dal classico odore penetrante, incurante di microbi eventuali. C’era anche un offerta: 4 pezzi 500 lire, un vero affare se ero di occhio lungo. Per prima trovai una camicetta bianca, un po’ a vita, di ottimo cotone, molto “segretaria perfetta”, poi un vestitino a fiorellini, fantasia gettonatissima in quel periodo, su sfondo celeste (non ho mai capito se fosse un abito o una camicia da notte, ma lo portai come vestito con grande dignità). Saltò fuori anche una graziosa camicia sempre a fiorellini. Mancava un pezzo per fare l’affare. Ed eccolo comparire, perfetto, senza uno strappo. Sembrava appena smesso da una bella signorina uscita dall’ufficio con borsetta e décolléte di vernice, capelli vaporosi fino alle spalle e rossetto d’ordinanza. Me ne innamorai subito. Lo guardai bene, era ovviamente di taglia più grande, ma la stoffa morbida si prestava a qualche modifica e poi ormai era mio! Tornai a casa con il mio bottino felice, misi tutto a mollo, impaziente di indossare le mie nuove “mode”. Non sono mai stata vanitosa e in quegli anni poderosi alternavo i jeans sformati alle gonne a fiorellini con gli zoccoli neri o ai vestiti indiani. Non sono cambiata con il tempo, ancora adesso penso che vestirsi significhi affrontare la vita sentendosi nei propri panni, cioè comoda e poco importa se ne va dell’eleganza (mia figlia che invece è molto fashion, fin da piccolissima lo era, mi dice che mi concio che sembro una lesbica, cosa che non mi fa né caldo e né freddo).

Quando il vestito si asciugò, lo stirai con grande attenzione e lo indossai. Sì, era davvero largo, ma la sensazione di quella stoffa carezzevole sulla pelle era magnifica, lo sentivo proprio mio. Pensa che ti ripensa, trovai la soluzione e senza dover modificare l’abito: una bella cintura di elastico, alta in vita, un’aggiustatina all’arriccio della gonna e voilà! Il risultato era perfetto e lo specchio mi rimandò un’immagine felice di me, cosa potevo desiderare di più? Per anni quello fu il mio “vestito buono”, ha attraversato con me tutta la vita, ha condiviso gioie e dolori anche restando comodamente sistemato sulla sua stampella. Per me l’importante era sapere che fosse lì, nell’armadio ben custodito e che ogni volta che volevo potevo andarlo a vedere, indossarlo anche solo per me stessa, risentire la sua carezza sulla pelle e la carezza dei ricordi sull’anima, frammenti felici di un passato lontano, ma sempre vivo in me.

Oggi me lo sono andato  a cercare, l’ho indossato pensando che adesso avevo l’età giusta per un abito del genere dallo stile retrò. Ho provato un piccolo brivido nell’indossarlo, mille emozioni, immagini, volti e voci in un secondo si sono affollate nella mia mente, e mentre mi guardavo allo specchio mi sono sentita fortunata e felice con quel mio talismano addosso che certificava e confermava tutto quello che era stato e sempre sarà perché ormai parte della mia vita. Per un attimo soltanto sono tornata la ragazza di allora, che mordeva la vita con il cuore in resta, il mare negli occhi  e il vento tra i capelli e mi sono sentita in pace col mondo per il solo fatto di essere stata quella ragazza e di poterlo raccontare.