Il dolore ai tempi dei Social Network ha una connotazione tutta strampalata.
L’informazione è così differente e si propaga in tempi record in un tam tam fuori controllo rapido e irriverente.
Una decina di anni or sono, quando ad esempio un amore era chiuso, era chiuso. Quando un’amicizia era chiusa, anche quella, era chiusa. Quando una storia era chiusa, lo era sul serio.

Solo una consistente volontà di rimanere in contatto ci avrebbe permesso di sapere cosa capitasse nella vita degli altri. A volte al massimo poteva accadere che particolari combinazioni di eventi ci reintroducessero nelle esistenze di partecipanti del nostro passato, come avviene con degli incontri casuali.

Paradossalmente oggi capita il contrario: la prossimità virtuale rende forse più accettabile non fare quello sforzo in più per incontrarsi fisicamente. Rende accettabile il perdersi di vista.
Un po’ come fa il romano che non visita le bellezze di Roma… che tanto la Citta Eterna è sempre lì, a portata di mano.

Non farò nomi, questa è una storia vera, che richiede rispetto nel dolore, e mentre scrivo il frastuono lo sto vivendo, e molte delle persone che mi conoscono, sapranno bene collocare questa vicenda nel tempo e nello spazio. Riconosceranno i protagonisti di questo racconto.
Che molto addolora.

Ve la narro a partire dal giorno in cui ho incrociato lo sguardo insolitamente tenero ed emozionato di una ragazza. Una fuori dal comune… energia allo stato puro. Un capitano.

La fanciulla più tosta che io abbia mai conosciuto forse, anzi sicuramente.
Ricordo ancora quel giorno, perché fu una di quelle rare volte che i suoi grandi, intensi occhi fulvi si sono un po’ inumiditi in mia presenza, trasmettendo tenerezza, evento inusuale.
Poi ho scoperto che capitava, ma solo quando parlava di lui.

Non dire i loro nomi mi è difficile, che ho in mente solo quelli in questo momento. Mi pulsano letteralmente nelle tempie.
Quel giorno ci fece sapere che di lì a poco si sarebbero sposati. Pranzammo insieme, festeggiando, il lieto evento. Eravamo proprio un bel gruppo di colleghi, anzi di amici.
Quel giorno mi apparve meno tosta e più donna del solito. Pronta a condividere la vita intera con l’uomo che amava da anni, nonostante la giovane età. Quell’uomo solo in apparenza più mite di lei. Legati dalla medesima caparbietà, simpatia, tenacia e dedizione. E da un mucchio di amici.

Galeotta fu la passione per lo stesso sport: la pallavolo. Lui l’allenatore, lei il capitano indiscusso.
Ma la pallavolo è stata solo la prima delle passioni condivise. L’arte, la storia, insegnare ai ragazzi, i progetti che pongono lo sport al centro di un discorso molto più ampio… Due spiriti vivi e vitali.

Lei pendeva dalle sue labbra come un bimbo curioso quando lui raccontava cosa era avvenuto nei secoli nei posti che visitavano insieme. Aspettavano con ansia il momento dei loro viaggi in solitaria. Che ultimamente erano sempre destinati alla scoperta di una nuova montagna.

Ci siamo perse di vista io e lei. Nonostante l’affinità elettiva, che ci vedeva tanto diverse quanto compatibili. Rimangono i ricordi di mille risate, la bellezza dei nostri reciproci racconti… e il week end in Toscana, noi quattro insieme, tra terme e buon vino, in uno di quei rari momenti che lo sport concedeva loro una pausa.
Poi le vite diverse, le scelte diverse… non siamo più colleghe da molto tempo. Io ho figli, lei no.
Lo dice anche quell’articolo di giornale…

Sportivi loro, molto meno noi. Tutto si è perso in un “tanto prima o poi”… che per come lo immaginavo, purtroppo, non accadrà mai.

Nel pomeriggio di oggi lo strano tam tam social. Li sapevo felici nelle loro montagne. Foto di sorrisi e facce buffe mentre raggiungevano insieme la vetta. “Come è felice quando è in vacanza… quando è con lui”, ho pensato.

E invece la vetta non l’avete mai raggiunta, insieme.
Un piede in fallo, sebbene esperto. Tanto è bastato per un finale assurdo.
Tu lì sola, a chiamare i soccorsi. Ed io ti giuro, non posso pensarci.

Oggi la chiesa era gremita, nonostante le vacanze, nonostante il caldo di questo triste agosto.
Quando sei entrata ti ho immaginata percorrere la stessa chiesa, vestita da sposa.
Bella anche nel dolore. Incredibilmente mi hai vista, hai deviato per un attimo il tuo percorso e abbracciata forte.
Poi sei andata avanti, sforzandoti di sorridere un po’, forse per i tanti bimbi presenti a salutare il loro amato allenatore per l’ultima volta nelle loro divise di squadra, forse per noi tutti, più probabilmente per lui.

Mi consolo dicendomi che se c’è qualcuno abbastanza tosto da poter disputare questa assurda, inaspettata partita, quella sei tu. Che non sarai mai sola.
E intanto senza alcun tam tam affido i miei pensieri per te, per voi, dove è giusto che stiano: qui, nella stanza dello sport.