Dopo il rettilineo un secco tornante, un breve tratto di falsopiano, e poi la strada si inerpica verso il cielo, un nastro d’asfalto che sparisce lontano tra le brulle pareti della montagna, sempre più in alto.

E’ lì che comincia l’azione: un lento risalire il gruppetto di corridori, fino a portarsi nelle prime posizioni, una rapida occhiata alle facce degli altri, un lungo sospiro e poi via, in piedi sui pedali, senza più voltarsi indietro, maestoso ed elegante come un’aquila che volteggia sulle sue vette, consapevole di avere nelle gambe un ritmo che nessuno avrebbe potuto mantenere.

La salita è un esaltante martirio, le gambe che urlano di dolore e la mente che spinge ad andare avanti, tanto che bisogna frenarne l’impeto per evitare che l’acido lattico tarpi le ali, i polmoni che pompano instancabili ossigeno, il cuore che gira su ritmi impossibili alle persone normali, lo sguardo rivolto sempre in su, alla vetta, all’arrivo.

La figura del ciclista è uno scarabocchio disegnato sulla strada, la sua esilità è impressionante, nessuno può immaginare la potenza spaventosa che è contenuta in quelle gambe scheletriche, in quelle natiche senza un grammo di grasso, ma più di tutto è la volontà, indomita, che lo spinge sempre più in alto, verso l’ultima vittoria, ancora più grande perché annunciata, tra due ali di folla esultante e impazzita.