Ascolta anche l’audioracconto interpretato da Andrea di Vincenzio di Cantine Teatrali:

«… Sì, la mia colpa è stata quella di aver amato troppo…».
Rovesciò la testa e si distese supina sul divano. Un accesso di tosse la costrinse a raddrizzarsi. Pensai che stesse per vomitare e feci un passo indietro, ma si coricò di nuovo, ridendo.
«Sei ubriaca, baby» le dissi.
«Lascia che mi ubriachi! Credi che non sappia cosa sei venuto a fare? E la mia colpa è stata…»
«…Quella di amare troppo, lo so» completai la frase per lei.
«Di cosa ti lamenti? Ti sto facilitando il lavoro! Scemo! Io dico amare e tu intendi scopare… tutti così gli uomini!»
La sua risata era roca, proveniva dal fondo della gola. In quel momento, Dio mi perdoni, pensai a quanti pompini doveva aver fatto con quella bocca. Lo sguardo era torbido, e in quello sguardo, più ancora che nelle forme, stava la sua sensualità. Lo sapevano tutti quelli che la conoscevano bene, io lo stavo scoprendo in quel momento.
«Vuoi scoparmi? Dai, fatti avanti! Ma ti avverto che devi spogliarmi tu, io non ce la faccio…»
Altra risata.
«Prometto di non vomitarti addosso… Cosa fai? Tutti gli uomini vorrebbero venire a letto con me, non lo sai? Non leggi i tabloid? Non hai visto i miei sextape?»
Improvvisamente si fece seria.
«Ma dimmi, non è che sei gay? Sarebbe proprio il colmo se… Ahahah, arrossisci, sei timido, ti ho messo in imbarazzo.»
E giù un’altra risata, che finì in un accesso di tosse.
Dovevo aspettare che si calmasse.
Lei mi lesse nel pensiero.
«Lo so che non puoi toccarmi! Posso dire quello che voglio e non puoi neanche sfiorarmi con un dito, vero, lurido figlio di una scrofa? Bastardo, tua madre doveva fare la prostituta e l’avevano impestata, per questo sei nato così stupido…»
Le sue parole non mi scalfivano: quell’accesso di volgarità aveva avuto l’effetto di cancellare ogni mio imbarazzo. Adesso ero lucido, tutto era rientrato nella normalità.
E l’alcool stava facendo il suo effetto. La donna terminò la sua invettiva in un pianto dirotto.
«Non è giusto, non è giusto» disse tra le lacrime, «non da loro…». Poi ebbe come un ritorno di lucidità.
«Negherò tutto. Quando ho minacciato di parlare stavo scherzando… non ho mai avuto intenzione di rovinare nessuno… Io l’amavo, li amavo…»
Mi guardò negli occhi.
«Non si può tornare indietro? No?» Era un implorare più che una domanda.
Scossi leggermente la testa: non era possibile.
Lei affondò il capo nel cuscino, continuando a piangere. Vedevo la sua schiena sussultare, il suo sedere stringersi e allargarsi appena. Mi sedetti vicino a lei e le posai una mano sulle spalle, cominciando ad accarezzarla come si fa con una bambina. Lentamente scivolò nel sonno. Un lieve russare si levò nella stanza.
Sospirando, mi alzai, presi il tubetto di barbiturici che avevo con me, identici a quelli sul suo comodino, lo vuotai in un portacenere e triturai le pastiglie, poi le sciolsi in due dita di gin.
Ritornai da lei, le sollevai la testa e le accostai il bicchiere alle labbra. Lei allargò la bocca in un lieve, inconsapevole sorriso e lasciò che il liquido le scendesse lentamente in gola.
«…Robert…» fu la sola parola che mormorò, prima che la rimettessi giù.
Mi accomodai sul divano di fronte e attesi. Nelle istruzioni mi avevano detto che dovevo aspettare tre ore per sorvegliare che non si svegliasse prima che i barbiturici avessero fatto il loro effetto. Sapevo che era una precauzione inutile, esagerata, ma anche che la posta in gioco era altissima.
Mi ero portato un libro da leggere, ma non fu facile far passare quelle ore. Alla fine mi alzai, le andai vicino e vidi che adesso il suo respiro era lievissimo. Svuotai il tubetto che aveva sul tavolino e gettai le pastiglie nel gabinetto, tirai due volte la catena, mi guardai intorno. Era tutto a posto.
Andai alla porta, la aprii piano e uscii.
Fuori dal portone mi tolsi finalmente i guanti. Diedi un’ultima occhiata alla finestra illuminata.
«Addio, Norma Jeane» sussurrai.
Poi mi calcai il cappello in testa e uscii nella notte soffocante di Los Angeles.