Ero seduta nella sala d’aspetto dello studio dentistico, con la guancia destra gonfia e un dolore martellante alla testa; stavo aspettando il mio turno.
Lo studio era colmo di pazienti, molti erano bambini, poiché la dentista era specializzata in apparecchi correttivi.
Ero lì da un’ora e mi guardavo intorno annoiata e insofferente.
La sala era abbastanza ampia, arredata con gusto e, tenendo conto che molti dei pazienti erano bambini, era provvista di un televisore che trasmetteva incessantemente programmi di cartoni animati a volume altissimo, alcuni giochi e libri per ragazzi di ogni tipo ed età.
L’avventura era iniziata la notte precedente.
Non avevo chiuso occhio a causa di un dolore insistente a un dente che mi aveva tormentato incessantemente e il mattino successivo ero distrutta.
Mi trascinai verso il bagno con i capelli arruffati, gli occhi pesti e mi massaggiai la guancia destra osservandomi allo specchio preoccupata.
«Devo prendere subito un appuntamento», commentai.
Tastai delicatamente la mascella inferiore e costatai che sentivo dolore all’osso e al collo.
Fuori era ancora buio ed io camminavo avanti e indietro irrequieta, con indosso una vestaglia di velluto rossa.
Eravamo alla fine dell’inverno, il tempo era inquieto e variabile ed era un continuo susseguirsi di giornate tiepide intervallate da giorni uggiosi e freddi.
I lampioni accesi illuminavano le strade deserte e il sole, che stava spuntando all’orizzonte, tingeva il mare di rosso.
Di solito, per me, l’alba è il momento più bello della giornata e mi piace osservare la natura che si sveglia con il rispetto dovuto a un miracolo. Quel giorno, no.
A un’ora più appropriata, telefonai allo studio dentistico e la segretaria mi fissò l’appuntamento per il pomeriggio.
Seduta su una poltroncina di pelle, aspettavo rassegnata perché l’esperienza mi aveva insegnato che, per gli appuntamenti urgenti fuori programma, ci volevano minimo due ore di attesa.
Mentre me ne stavo assorta in mezzo al caos e al frastuono cercando di non pensare, mi stupivo nel costatare che il mio cervello, pur registrando dolore, riuscisse a fare considerazioni filosofiche sulla precarietà della natura umana che andavano a mettere ancora più in evidenza il mio problema.
A mio parere, era prossimo a esplodere in una crisi di nervi isterica.
Spuntò il viso sorridente della segretaria:
«Venga, Signora, tocca a lei».
Così provata, oltrepassai la porta che separava la sala d’attesa dagli studi medici sulla quale spiccava una targa dorata con inciso:
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate!”
Divina Commedia Dante Alighieri ne l’Inferno III 1.12.
Anche se fino ad allora mi era sembrata una trovata spiritosa, quel giorno mi parve quasi che suonasse come una minaccia.
Ci avviammo lungo il corridoio e, passando davanti alla porta socchiusa di uno studio, vidi un bambino abbandonato nelle mani laboriose della dottoressa.
Mi accomodai in quello riservato a me e aspettai la dentista che arrivò sfoggiando un sorriso smagliante:
«Buona sera, allora, che c’è che non va?».
Le spiegai il problema, spalancai la bocca e lei osservò attentamente esclamando:
«Non vedo niente di strano, è sicura che le faccia male proprio lì?», disse tastandomi il dente e provocando una fitta ancora più dolorosa.

La dottoressa osservò ancora, poi disse:
«Le faccio l’anestesia, poi vediamo» e procedette infilandomi l’ago della siringa nella gengiva, poi ritornò nello studio accanto.
Mentre l’anestesia sta incominciando a fare effetto, sentivo la dentista alle prese con il ragazzino.
All’improvviso si mise a cantare, con una bella e intonata voce da contralto:
«Quarantaquattro gatti in fila per sei con il resto di due, marciano compatti, in fila per sei con il resto di due … Sei per sette quarantadue più due quarantaquattro!».
Invidiai il carattere allegro della dottoressa e il suo senso dell’umorismo.
Poi arrivò il mio turno:
«Come va, ancora dolore?» chiese lei.
«Sento l’effetto dell’anestesia, ma provo ancora dolore», risposi farfugliando con la bocca storta.
«Allora ne somministriamo ancora un po’», continuò inserendo di nuovo la siringa e bucandomi ancora, poi ritornò dal ragazzino, sempre canticchiando la canzoncina dello Zecchino d’Oro che, evidentemente, era il suo cavallo di battaglia.
Eccola di ritorno:
«Allora?»
Dopo la terza dose di anestetico le dissi coraggiosamente:
«Provo sempre dolore, lei proceda, cercherò di resistere» dissi sfinita, ignorando le proteste disperate del mio cervello fifone.
In conclusione, la dottoressa scoprì che il molare inferiore destro, ancora ricoperto a metà dalla gengiva, era cariato proprio sotto di essa.
«Bisogna estrarlo, non c’è nulla da fare», esclamò decisa mentre prendeva una pinza.
Avevo il cuore in tumulto ma, con la bocca spalancata, mugolai il mio rassegnato assenso, con il desiderio di risolvere il problema.
Lei armeggiò nella mia bocca con strumenti di vario tipo e mi fece pensare a un meccanico, con il busto infilato dentro il cofano anteriore di un’auto.
Mentre stava lavorando, prese il telefono, lo appoggiò sulla spalla destra e incominciò a parlare, prima, con la bambinaia informandosi dei figli, poi, con la colf dandole istruzioni per la cena, infine, prese un appuntamento per una lezione di tennis, parlò con il marito annunciandogli che avrebbe fatto tardi e, in ultimo, con un’amica con la quale sarebbe andata a teatro prossimamente.
«E’ veramente una donna tutto fare», pensai a occhi chiusi ammirata, ma leggermente preoccupata, «è capace di fare tutto contemporaneamente; speriamo che il dente sia tra le sue priorità», non potei fare a meno di considerare.
«La situazione è più complessa di quanto pensassi», commentò lei all’improvviso facendo accelerare il mio battito cardiaco.
«Il dente stava uscendo storto, devo fare attenzione perché nell’estrarlo, potrei scheggiarle l’osso mascellare; c’è molto pus e dovrò raschiarle l’osso, suturare …» e continuò elencando ogni passaggio nei più piccoli dettagli.
Io, con il “cofano spalancato”, mi sentivo la testa simile a una mongolfiera, avevo le lacrime agli occhi e avrei preferito non essere informata su tutti i dettagli dell’operazione ma, rassegnata, ammiccai con mugolii di approvazione, aggrottando la fronte.
Era alla sua mercé, che altro avrei potuto fare?
Dopo un’altra mezz’ora di lavoro, mi annunciò:
«Ecco fatto», mostrandomi il dente, «adesso suturo e siamo a posto; prenda un appuntamento tra sette giorni per togliere i punti», continuò rivolgendomi un sorriso e congedandomi con una calorosa stretta di mano.
Passai davanti alla sala d’attesa e rivolsi un’occhiata alla moltitudine di persone annoiate che mi fissavano con odio palese.
Lo percepivo distintamente, perché la dottoressa, per curare me, era in ritardo di almeno tre ore e chissà per quanto tempo avrebbero dovuto aspettare.
Dopo aver pagato la parcella e preso l’appuntamento successivo, uscii nella sera, stordita, frastornata e infreddolita.
«Com’è tardi, sono quattro ore che sono lì dentro», dissi sbirciando l’orologio.
Non so come riuscii a guidare e ad arrivare a casa incolume perché il viaggio fu allucinante.
Guidai lentamente perché avevo la vista annebbiata, mi girava la testa e la strada sembrava andare avanti e indietro come la messa a fuoco dello zoom di una macchina fotografica.
Arrivata a casa, mia figlia mi stava aspettando preoccupata del mio ritardo, ascoltò il mio racconto rocambolesco ma, quando le dissi:
«Prima di uscire copriti bene, si è messo freddo», esclamò:
«Mamma, hai le allucinazioni?»
«Misurati la febbre, anzi no, lascia, faccio io!».
Prese il termometro con determinazione e mi misurò la temperatura:
«Trentanove e mezzo, sei pallida come un morto, adesso telefono alla dottoressa» esclamò.
M’infilai sotto le coperte e mi raggomitolai scossa dai brividi, sentii mia figlia che parlava al telefono, poi uscire, rientrare …
Avevo perso la cognizione del tempo.
Lara arrivò in camera con un bicchiere d’acqua e una compressa:
«Devi prendere l’antibiotico per sei giorni, ogni dodici ore, non dimenticarti, e adesso, cerca di riposare», mi sussurrò la mia infermiera con il viso leggermente preoccupato.
Dopo una notte agitata e travagliata, il mattino successivo, scesi dal letto traballando, mi girava la testa, avevo la bocca impastata, la guancia mi pulsava, ma il dolore era finalmente cessato.
Come un automa, senza pensare a nulla, ritornai a letto e dormii fino a tardi.
Quando finalmente mi svegliai e cercai di preparare qualcosa da mangiare era passato mezzogiorno da un pezzo, pensai che fosse più adatto un frullato o un budino perché ricordai che avevo sette punti di sutura in bocca e facevo fatica a muovere la mascella.
Andai avanti così per alcuni giorni, ingerendo cibi semiliquidi, freddi, poi, finalmente, mi recai allo studio dentistico a togliere i punti e, per fortuna, me la cavai in poco tempo perché quel giorno regnava una calma particolare.
Il giorno successivo, pensando di essermi oramai lasciata alle spalle l’allucinante esperienza, mi alzai da letto decisa a ritornare alle mie consuetudini.
Mi preparai un caffè ma, mentre stavo per portarlo alle labbra, mi accorsi di non poter aprire la bocca oltre un centimetro.
Altra telefonata, altro appuntamento.
Di pappe e frullati con cannuccia non ne potevo più.
Cercai di fare dell’umorismo sul fatto che eravamo prossimi all’estate e che qualche chilo in meno mi avrebbe reso più affascinante, ma ero troppo depressa, avvilita e mi sarei messa a piangere.
«Sono stanca, ho fame, ho voglia di masticare qualcosa di consistente», pensavo esasperata.
Ritornai allo studio il giorno successivo, aspettai che Caronte mi conducesse attraverso l’anticamera dell’Inferno, mi lasciai condurre nel girone a me riservato, sedetti sulla poltrona delle torture e attesi la mia aguzzina.
Sentii la dottoressa canticchiare nello studio accanto e poco dopo mi raggiunse esclamando sorridente:
«Allora, cara, che succede?».
«Non riesco ad aprire la bocca», farfugliai impedita.
«Vediamo un po’», esclamò e, come si usa fare con i cavalli, mise due dita nell’arcata superiore e due in quella inferiore e provò ad aprirmi la bocca.
Un dolore lancinante mi tolse il respiro e rimasi tramortita con le lacrime agli occhi per qualche secondo.
Lei si fermò immediatamente, mi fissò negli occhi e affermò decisa:
«Si tratta di un blocco mascellare».
«Bella scoperta», pensai, «c’ero arrivata anche da sola, ma, adesso che si fa?», interrogarono i miei occhi.
La dottoressa uscì dallo studio e ritornò accompagnata dalla figlia, neo-laureanda, che stava facendo pratica con la madre.
«Vieni a vedere, abbiamo un blocco mascellare; nella mia carriera trentennale è la seconda volta che mi capita», sentenziò con fare competente.
«Solo due volte?», pensai in ansia.
«Adesso le spiego cosa dobbiamo fare», mi disse mentre la guardavo impaurita.
E qui bisogna essere onesti, su questo punto non la batteva nessuno, mi spiegò nei minimi dettagli cosa sarebbe andata a fare, senza tralasciare nulla e preoccupandomi ancora di più.
Mi sentivo tale e quale a una vittima sacrificale: braccata e senza via di uscita.
«Ora facciamo cinque secondi di apertura forzata e cinque di pausa finché non raggiungiamo l’obiettivo».
«Proverà dolore, la avverto», mi disse.
«Ancora?».
«Perché fino ad ora cosa hai provato, secondo lei, piacere?» protestò il mio cervello offeso e in procinto di fare i bagagli.
Iniziò il supplizio.
«Uno … due … tre … quattro … cinque», pausa.
Il dolore che provai in quei cinque secondi fu indescrivibile!
«Uno … due … tre … quattro … cinque».
Avevo perso la cognizione del tempo, ero bagnata di sudore, il mio cervello se l’era data a gambe o si era chiuso da qualche parte con la ferma e saggia decisione di non fare ritorno.
Giunta a metà dell’opera, la dentista si fermò, aprì e rovistò in vari cassetti e tirò fuori una piccola ciambella di gomma simile a quelle che si usano per i neonati per rinforzare le gengive prima della dentizione:
«Adesso usiamo quest’anello, glielo metto dalla parte opposta, lei chiude la mandibola, così farà leva dall’altra parte», proseguì imperterrita.
Altro ciclo di:
«Uno … due … tre … quattro … cinque», pausa.
Finalmente l’apertura mascellare raggiunse il massimo, la dottoressa era soddisfatta, la figlia molto interessata, io un po’ meno, con la bocca che oramai sembrava diventata una palestra corredata di ogni tipo di attrezzo.
«Dovrà esercitarsi a casa per almeno una settimana, per tre o quattro volte il giorno e vedrà che poco a poco non proverà più dolore».
La ringraziai, ritornai in anticamera per saldare il conto ma scoprii che questa volta era tutto gratis.
«Bontà sua», sussurrò prontamente il mio cervello che era ritornato al suo posto spavaldo e petulante, «con quello che hai passato, sei tu che dovresti essere pagata», bofonchiò.
«Quando si comporta da gradasso, non lo sopporto», ricordo che pensai.
Ritornai a casa e per una settimana eseguii gli allucinanti esercizi, finché il problema si risolse. Alleluia!