Shyamala Gopalan

Ammirare il Golfo del Bengala, ricercare Brahman, cercare l’uno nel tutto e il tutto nell’uno esplorando l’atman, pronunciare l’Om, deprimere il samsara. Impedire che gli affetti per le proprie radici e per i propri rami diventino steccati che respingono gli altri. Sopprimere l’ego, demolire l’io, spalmare l’amore sul mondo, inseguire il nirvana. Abbandonarsi allo spirito immanente che compone la materia, affidarsi all’eterno divenire del fiume senza tempo, entrare nel guscio dell’uovo universale del presente in divenire, scartare le cianfrusaglie del passato e del futuro. Imboccare e percorrere la lunga strada che porta alla pace perfezionata dal sogno dei sacerdoti, dei brahmani, dei saggi e dei maestri susseguitisi negli ultimi cinquemila anni, esistere senza passato, senza futuro, senza nostalgia, senza ansia, senza il dolore del samsara, smettere di soffrire ed infine essere felice.

Aspirazioni millenarie molto diffuse nella cultura dell’India.

Shyamala Gopalan era nata a Madras, era ancora giovanissima e si poneva però le seguenti domande:

«Non dovrei dar conto per la mia felicità? E se sì, a chi? A me stessa? Al supremo infinito? All’etere? Alla polvere? A chi mi sosterrebbe col suo spirito? A chi mi offrirebbe gentilezza e amore? All’intera umanità? Quale sarebbe il senso del mio essere? Quanto costerebbe la mia felicità? La ripagherei Madras per la felicità ricevuta? La ripagherei l’India? Lo ripagherei il mondo? Sarei onesta? O mi limiterei a razziare felicità restituendo inerzia se non egoismo ed infelicità? Cosa andrei a costruire rinunciando al mio io? In quale modo sarei di conforto a me stessa e al mondo intero? Davvero devo attraversare la mia vita annullandomi senza lasciare traccia?».

A Shyamala qualcosa della cultura indiana non quadrava e pensava che forse non doveva annullarsi, non doveva perdersi, non doveva assecondare e soccombere all’affascinante e prepotente forza indiana che per quanto sacra e rispettabile le lasciava il sospetto della fallacia, dell’apatia, dello stallo, dell’inazione stagnante. Shyamala intuiva della polvere sotto il fascinoso tappeto fabbricato in millenni di ricerca filosofica e spirituale che aveva prodotto le mille suggestioni indiane.

Forse Shyamala non sarebbe stata una brava indiana ligia alle tradizioni.

«Sarò indiana nel sangue ma cittadina del mondo perché potrò essere felice soltanto se sarò onesta col mondo, se restituirò frutti succosi in cambio della bellezza e dell’amore che il mondo vorrà darmi. Voglio lasciare un mondo migliore di quello che troverò e non vivrò per cancellare il tempo riuscendo a fermarlo soltanto morendo, no! Sarò una brava figlia del mondo intero», questo il pensiero di Shyamala che, sia pure ancora adolescente, le discendeva dal sentir discorsi nell’ambiente a lei usuale in famiglia e in società.

Shyamala cresceva educata a Madras, si chiedeva se avesse mai potuto produrre qualcosa di utile da lasciare al mondo intero rimanendo lì e concludeva che sarebbe stato meglio provarci altrove.

«No, qui non è l’ambiente ideale; devo andare via da Madras e dall’India. Devo trovare un posto in cui mi sia data la possibilità di realizzare i miei sogni. Un simile posto esisterà certamente ed io lo troverò. Lo troverò e lì andrò, lì, oltre il Golfo del Bengala, oltre il cielo, oltre le montagne, oltre i fiumi, oltre i mari, oltre le nuvole. Lì dove si respira, lì dove nessuno mi impedirà di sognare e di fare qualcosa di utile nella vita. Devo scappare via da qui e andare dove è possibile volare».

Una cultura che va a mescolarsi con una cultura diversa produce bellezza e Shyamala era dunque una promessa di bellezza.

Shyamala era una ragazza indiana di millenaria, saggia e nobile discendenza. La casta di appartenenza era quella più alta ed affondava le radici nel millenario brahmanesimo. Il padre era un diplomatico che lavorava per il governo indiano, era un saggio e rispettato brahmano ma lungi dall’aderire acriticamente alla cultura ed alle tradizioni indiane, metteva molte cose in discussione. Il padre aveva vissuto le angherie del colonialismo britannico ed era stato costretto ad ammettere che cinquemila anni di pensiero filosofico e spiritualità non avevano arginato le brutture del mondo che ammorbavano l’India ed era quindi diventato progressista e pronto a liberare i figli dalle millenarie tradizioni indiane. In un’India resa permeabile al mondo esterno dai traffici commerciali e che si misurava col resto del mondo, i privilegi di casta che i figli potevano avere in India erano oramai della roba che lungi dal privilegiarli li avrebbe danneggiati. Oltretutto la suddivisione in caste della società indiana era stata giustamente abolita per legge costituzionale non appena l’India conquistò l’indipendenza. Il padre si rese conto che la nobiltà indiana era oramai come una zitella che in virtù del suo fascino e dei suoi averi reclamava un principe azzurro in un mondo senza principi azzurri e pieno di leviatani famelici e cangianti. L’epoca del romanticismo era tramontata da un pezzo, l’India provava a mollare le tradizioni e i privilegi di casta, provava a muoversi per meritarsi il pane sul campo, il padre si muoveva in sintonia con queste tendenze e Shyamala era libera di studiare.

Libera ma a patto che avesse studiato economia domestica.

Come Henry Ford ai tempi della grande depressione: “per la vostra nuova Ford potete scegliere il colore che vi pare purché sia nero”.

Economia domestica! Nobile cosa, sì, ma perché non altro?

Il fatto è che per quanto la famiglia di Shyamala fosse aperta e liberale, non riusciva a dare un cazzotto pieno alla mentalità indiana. La nobiltà un minimo di tradizioni e convenzioni sociali tendeva a rispettarle nonostante tutto spingesse al cambiamento e in risultato era che le femminucce dovevano studiare economia domestica.

Le muffe prodotte da millenni di nobilissimo pensiero non erano facili da debellare.

Era mal messa la cultura indiana? O non è piuttosto che non c’è bene se non c’è male in qualsiasi cultura? O non è forse che il bene si realizza ovunque soltanto quando inciampiamo sul male? O non è forse che il male è necessario al bene? O non è forse che l’errore è una delle pietre sulle quali il Creatore ha fondato la vita? Ma allora? Se l’errore ci è necessario con quale faccia diciamo che è male? Cosa è il bene? Cosa è il male? Ah, saperlo! E siccome nessuno la sa se non il Padreterno ecco che non dobbiamo meravigliarci se quattromila anni di affinamento del pensiero indiano produssero anche muffa, ecco che scaricare millenni di Storia non è impresa facile manco per le menti liberali e progressiste. Il risultato del caos era dunque che Shyamala era ancora giovanissima e già soffriva sentendo di dover pagare un pegno ingiusto alla sua schiatta. Per sovramercato Shyamala aveva pure un fratello già predestinato ad alte carriere che la sfotteva: «Studi economia domestica? E che cosa preparerai per cena al tuo maritino?».

Il sangue ribolliva nelle vene di Shyamala in barba agli insegnamenti di millenaria memoria. Polvere, ragnatela, muffa, scantinato millenario putrescente. In barba ad Henry Ford la ragazzina avrebbe chiesto di comprare una Ford gialla con portiere verdi e cofani rosa.

«Io vi manderò tutti quanti a quel paese!» Questo era il mantra che Shyamala si andava formando e che non esternava perché intelligente, fiduciosa ed educata. «A che pro far soffrire le persone che amo? Agirò ma non lo farò sapere se non all’ultimo istante prima di spiccare il volo. Starò zitta fino a che sarà necessario e parlerò soltanto quando sarò in grado di non far soffrire troppo chi amo» elucubrava.

Ribelle sì, ma l’educazione, il rispetto e l’amore per i genitori erano priorità sacre e inviolabili; Shyamala non avrebbe quindi esternato la sua ribellione interiore almeno fino a quando non avesse elaborato e definito un piano perfetto per rendere dolce e accettabile in famiglia tale ribellione. Il piano non doveva fallire e per avere successo doveva arrivare il giorno in cui avrebbe messo tutti quanti di fronte al fatto compiuto ed avrebbe spiccato il volo verso la libertà e verso la vita senza lasciare troppe tracce di dolore.

E dove sarebbe andata a completare i suoi studi dopo il diploma in economia domestica conseguito a Nuova Delhi?

Di sicuro non sarebbe tornata a Madras.

Sarebbe rimasta a studiare a Nuova Delhi? Sarebbe andata a Bombay? A Calcutta?

No, troppo alto il rischio di adattarsi e soccombere alle millenarie tradizioni indiane.

E allora a Oxford? A Cambridge?

No, era lì che andavano a studiare gli indiani più agiati ma lì non accettavano donne a dimostrazione di quanto incivili fossero i civilizzatori.

Ed eccolo il bene che si manifesta in tutto il suo splendore non appena inciampiamo sul male: Shyamala pensò, si guardò in giro, studiò, si informò, elucubrò, andò in biblioteca, lesse giornali, lesse libri, consultò mappe, guardò oltre al finestra, sbirciò oltre la Valle dell’Indu, oltre il Gange, oltre il Brahmaputra, oltre il Golfo del Bengala. Sognare di volare era meraviglioso e Shyamala volò ad ali spiegate. Guardò oltre Katmandù, oltre l’Himalaya, oltre il Pamir, la Bactriana, il Karakorum, la Birmania, lo Sri Lanka, il Golfo Persico, l’Australia, l’Africa. Un posto dove andare a realizzare i suoi sogni oltre l’Asia, oltre l’Europa, oltre l’Oceano Indiano doveva pur esserci. Shyamala volò, allargò lo sguardo e scoprì infine un posto che prometteva di darle un po’ di pace interiore, di speranza, di refrigerio, di respiro, di farle focalizzare le idee per progettare il suo futuro di donna libera, autonoma, indipendente, capace di lottare per autodeterminarsi, realizzarsi, provare a trasformare i suoi sogni in realtà. C’era un posto che sembrava un nascente paradiso, un crogiolo di idee, culture, razze, religioni, estrazioni sociali, un posto dove non le avrebbero chiesto se era maschio o femmina per essere ammessa all’università, non le avrebbero chiesto se era bianca, nera, gialla o pellerossa, non le avrebbero chiesto se era musulmana, ebrea, indù o animista né se era una nobile brahmana o l’ultima delle paria indiane intoccabili. In America c’era un posto cosmopolita dove si parlava di diritti civili, di pari opportunità tra i sessi, di solidarietà, di liberazione, di riscatto. Erano i primi anni cinquanta, in America il razzismo era opprimente e il maccartismo generava la caccia alle streghe comuniste ma lì c’era un posto dove si poteva bestemmiare di uguaglianza e persino di socialismo sia pure sottobanco per non farsi ammazzare. Contraddizioni colossali, dunque, ma per Shyamala il posto giusto era lì, era l’Università di Berkeley in California. Nell’America delle più vergognose contraddizioni ma anche nell’America della libertà, delle opportunità e del sogno c’era Berkeley e lì sarebbe andata, Shyamala lo giurò a sé stessa. Sarebbe andata lì dove c’era il fermento, dove c’erano e si manifestavano aneliti di libertà, lì dove l’establishment scatenava oppressioni contro il peccatori e contro le streghe ma i peccatori e le streghe si moltiplicavano invece di sparire. Berkeley era il posto che Shyamala cercava perché lì c’era l’oppressione e tutto il male possibile ed immaginabile ma lì si discuteva, si combatteva, c’era la lotta contro lo squallore e lì sentiva di poter provare a realizzare i suoi sogni.

Il padre di Shyamala era un brahmano ed amava la cultura indiana ma Shyamala sapeva che i genitori erano progressisti pur avendola mandata a studiare economia domestica sotto il peso di cinquemila anni di storia. I genitori le avevano spesso fatto capire che lei poteva aspirare a qualcosa di meglio. Shyamala sapeva che i suoi erano liberali e che quindi sarebbero stati saggi, di manica larga e che, messi davanti al fatto compiuto, avrebbero forse titubato e brontolato, le avrebbero forse fatto il muso per un po’ ma poi avrebbero abbozzato, l’avrebbero benedetta e l’avrebbero aiutata a realizzare i suoi sogni.

Senza dire nulla a nessuno la ragazzina cominciò dunque a studiare economia domestica di giorno ed a studiare sogno di notte promettendo a sé stessa che avrebbe messo la famiglia di fronte al fatto compiuto e se ne sarebbe andata a Berkeley.

E questo fece Shyamala.

Studiando ufficialmente economia domestica, Shyamala studiò tutt’altro e a 19 anni, nel 1958, vinse un master in nutrizione ed endocrinologia presso l’Università della California a Berkeley e vi si trasferì.

Lì a Berkeley Shyamala conseguì poi il dottorato di ricerca nel 1964 e lì in America scoprì il recettore murino del progesterone contribuendo così a chiarire la genesi del cancro al seno e riuscendo così a realizzare il sogno di lasciare un mondo migliore di quello che aveva trovato.

Shyamala Gopalan si sposò con Donald Harris, un giamaicano che oggi è professore emerito in economia all’Università di Stanford e dal matrimonio nacque Kamala che oggi sta diventando Vicepresidente degli Stati Uniti d’America.

La storia di Shyamala Gopalan racconta quindi che l’America non diventa grande con lo slogan “America first”, non diventa grande con gli steccati alle frontiere, non diventa grande con l’esclusione ma diventa grande con l’inclusione, con l’accoglienza, col cosmopolitismo, con la fusione tra culture diverse e con l’offrire a tutti la possibilità di realizzare i sogni.

Era tranquilla Shyamala Gopalan in America?

No, era agitata, si dava da fare in ricerca e per i diritti delle minoranze afroamericane; agitandosi realizzò il suo sogno di dare al mondo qualcosa per ripagarlo della felicità ricevuta. Col suo contributo nella ricerca scientifica e col suo contributo nelle lotte per i diritti civili degli afroamericani il suo sogno si realizzò mentre era ancora in vita. Il suo sogno produce però i suoi frutti ancora oggi perché quel sogno prosegue oggi con sua figlia Kamala Harris che, agitatissima, lotterà ed onorerà la memoria di sua madre, onorerà l’America e, sperabilmente, onorerà il mondo intero.

Ci riuscirà Kamala Harris a lasciare un mondo migliore come già fece sua madre Shyamala?

Lo sapremo soltanto vivendo ma questo è l’augurio.

La storia di Shyamala Gopalan è dunque il perfetto paradigma del sogno americano.

Nei suoi discorsi di ringraziamento all’America dopo le ultime elezioni presidenziali la figlia Kamala Harris ha usato parole del seguente tenore:

«In tempi di pandemie, in tempi di preoccupazione e di lotta, hai trovato il coraggio, la resilienza, la generosità e lo spirito per votare. Grazie America. Hai marciato per l’uguaglianza, per la giustizia, per le nostre vite, per il nostro pianeta e infine hai votato. Grazie America. Votando hai scelto la speranza, l’unità, la decenza, la scienza e la verità. Grazie America. E grazie madre, senza di te io oggi non sarei qui a ringraziare l’America. Grazie Shyamala Gopalan Harris; quando arrivasti qui dall’India all’età di 19 anni non sapevi che questo momento sarebbe arrivato ma sognavi e credevi che in America questo momento fosse possibile. Ecco, madre, il momento è arrivato, il sogno è ora realtà. Grazie madre per aver sognato».

Shyamala ci ha lasciati undici anni fa ma quella madre vive oggi in sua figlia Kamala Harris che dice “grazie America, grazie madre”.

La storia del padre giamaicano Donald Harris è uguale alla storia di sua moglie Shyamala; cambiano i connotati, cambiano i luoghi ma resta analogo il resto. Anche Donald Harris è un dreamer che secondo certa vulgata americana è da ripudiare ricacciandolo indietro alle frontiere ed anche lui dimostra invece che “umanità prima” è meglio di “America first”. Anche lui lascerà un’America ed un mondo migliori in barba al suprematismo nazionalista e xenofobo di “America first” che lungi dall’ingrandire l’America la rimpicciolisce.

Donald Harris e Shyamala Gopalan dettero il nome di “Kamala” a una loro figlia.

Kamala è il prodotto del fiume del tutto e dell’uno che comprende non solo il bene ma anche il male e speriamo che il bene prevalga sul male senza avere la pretesa di stabilire una linea di demarcazione netta tra il bene e il male perché quella la conosce soltanto il Padreterno; meglio quindi non odiare e non inveire più di tanto contro qualcosa che definiamo come male. Diciamo che qualcosa spinge a ringraziare Shyamala Gopalan in cielo e Donald Harris in terra e qualcosa spinge ad augurarsi che grande e illuminato sia l’amore ereditato da Kamala Harris nel corpo e nel nome.

Bello è sperare oggi più di prima in un mondo migliore.

Bello è captare le parole che il fiume ci racconta oggi scorrendo eterno e senza tempo sotto i nostri occhi.

Bello è poter dire “aiutaci cielo”.

Bello è invocare l’aiuto divino in soccorso di tutti ed in particolare di chi soffre.

Aiutala a vincere perché Kamala lotta per sé ma lotta anche per noi e se nessuno merita davvero di soffrire, tanto meno merita di soffrire lei.

Aiutala perché Kamala è la figlia di Shyamala ma è nostra figlia, è mia figlia e se soffre mia figlia soffro io, se soffre nostra figlia soffre il mondo intero. Perdonaci per i nostri errori e le nostre omissioni. Perdonaci e porgi alla madre le carezze che non le abbiamo tributato in Terra. Accarezza e porgi la Tua mano pietosa alla figlia. Lode, onore e gloria a Te ed infinita gratitudine qualsiasi sia la Tua volontà.