Quella mattina citofonarono con insistenza all’appartamento interno uno della palazzina di Clorinda Bianconi detta Clò. Vi abitava la signora Loretta che avrebbe potuto portare anche lei il soprannome Digos, ma per non creare doppioni veniva soprannominata, senza troppa fantasia, l’impicciona dell’interno uno. La signora lavorando fuori casa poteva occuparsi del vicinato soltanto di pomeriggio o nei giorni festivi; essendo sabato rispose subito.
«Scusi il disturbo, mi chiamo Marilù Bianconi sono la nipote della signorina Clotilde Bianconi, non mi risponde…»
Un’occasione ghiotta per un’impicciona che si rispetti. Così Marilù venne fatta prontamente accomodare nella sala da pranzo, e l’interrogatorio partì davanti a un caffè e un vassoietto di biscottini. Marilù sedeva dritta e rigida in pizzo alla sedia, per niente a suo agio. Vestiva una scamiciata a fiorellini rosa che sembrava copiato dalle protagoniste di “Una casa nella prateria”. Portava una bassa coda di cavallo castana tenuta da un fiocco anch’esso rosa e sorrideva imbarazzata con il visetto pallido e butterato per una acne non più tanto giovanile. Diciamo che le domande avrebbe voluto farle lei, ma la ragazza non sapeva chi aveva di fronte.
«E così lei è la nipotina, non sapevo ne avesse.»
«Non vengo spesso per motivi di lavoro.»
«Viene da lontano? Da Roma? Da L’Aquila?»
«No, vivo a Perugia.»
«Bella Perugia, con la festa della cioccolata! E… come mai da queste parti?»
«Sto cercando mia zia perchè da qualche giorno ma non risponde al cellulare. Il sabato non lavoro così ho pensato di fare un salto a controllare.»
La signora si portò una mano sul mento: «In effetti è da un po’ che non la sento. Sa, lei quando stende sgocciola spesso i panni suoi miei, poi quando pulisce le piante mi riempie il terrazzo di terra e foglie secche. Però è una brava donna per carità! Ma essendo la mia padrona di casa sa, io mi faccio i fatti miei.»
«Quindi non l’ha più sentita…»
«Pensandoci bene no, è da un po’. Strano mi sia sfuggita questa cosa…» sembrava davvero sconcertata.
«Mia zia mi disse tempo fa di aver dato una copia delle chiavi alla sua amica, pensavo che essendo lei la vicina di casa…»
«No io non ce l’ho, ma le sue amiche sì.»
«Lei le conosce?»
«Bè, certo!»
Marilù estrasse dallo zainetto il cellulare e con l’indice iniziò a cercare qualcosa: «Giorni fa mi ha mandato una foto, guardi, sono queste?» sullo schermo apparve il volto sorridente di Clò, alle sue spalle due donne erano stese sulle sdraio e una terza (con il visetto secco e scuro e gli occhialini a lunetta dalle lenti spesse) sfoggiava un’espressione incuriosita verso l’obiettivo: «Sono queste vero? Le ho viste soltanto un paio di volte e non le conosco.»
«O ma io le conosco tutte e tre!» e si dispose a sfoggiare il suo sapere: «Queste dietro sono: Marisa Ciondoli in Peretta, la chiamano Marisetta, è vedova da poco, povera donna, ma è una di quelle persone così devote alla chiesa che riescono a superare subito le disgrazie. Come le invidio! Questa è la signora Rina, cioè Onorata Ridolfi vedova da più tempo, abita ai palazzoni vecchi dietro la scuola, vive sola. Questa qui invece, in primo piano, abita con il figlio proprio giù davanti al fontanile, è Ubaldina Goro, la chiamano tutti signorina Nena. Come sua zia, è signorina pure lei, però lei un figlio ce l’ha, sa, frutto di quegli amori giovanili…» con un sorrisetto di chi la sa lunga. «Una volta lavorava al negozio di merceria nella frazione di Nebbione, adesso è in pensione. Può arrivarci a piedi, saranno massimo trecento metri. Il portone al civico sei è rosso con una pianta di oleandro davanti, non può sbagliare. E mi faccia sapere, per carità!»

Quando rispose al videocitofono Ubaldina Goro, detta Nena, rimase letteralmente a bocca aperta. Sul piccolo schermo di allargava un volto pallido e preoccupato che si etichettava come “Marilù Bianconi, e cerco mia zia Clotilde”.
Ci sono momenti nella vita in cui lo spirito di sopravvivenza prende il sopravvento sullo stupore e, per fortuna, quella volta fu così. Dalla bocca di Nena, sopravvissuta l’istante più lungo della sua vita, uscì una voce con una tonalità diversa dal solito, che perse le doppie e assunse un accento straniero indefinito: «Signorina Nena non esere qui. Dispiace, io chiamo figlio. Aspeti prego.»
Riccardino, quarantenne storico di professione e disoccupato pure storico, era sdraiato sul letto, perso in un tomo sulla diciottesima dinastia egizia, quando vide sua madre piombare in camera con il viso stravolto di chi ha visto un fantasma: «Alzati subito e fai quello che ti dico!»
«Ma…» provò ad obiettare, scattando però sull’attenti.
«Niente ma! C’è giù la nipotina di Clò, dille che io sono fuori casa. Scendi e accompagnala dalla zia, ti do le chiavi. Prendi tempo, io arrivo subito.»
«Ma la Clò non stava dalla nipote?»
«Appunto.»
«Allora cosa ci fa lei qui?»
«Figliolo caro, è quello che devi scoprire tu.»
«Perché non tu allora?»
Ma come spiegare a Riccardino che lei stava tremando e che le gambe non l’avrebbero retta ancora per molto? Che aveva davanti agli occhi l’amica morta e sorridente sulla poltrona? Che qualcosa era andato storto e lei doveva correre in bagno a vomitare?
«Figliolo caro, poi ti spiegherò tutto. Adesso scendi da quella bella signorina che ti aspetta al portone e accompagnala a casa della zia. Fatti pure spiegare perché Clò non è con lei. Io vi raggiungo subito.»
«Ma…»
«Obbedisci!» e quello si infilò le scarpe e obbedì.

Riccardino, da mesi disoccupato in cerca di un lavoro, stava vivendo un periodo di profonda depressione. Da tempo non frequentava le solide amicizie di una vita che, a quell’età (sulla quarantina) avevano tutte più o meno raggiunto una posizione di stabilità. Chi si era impiegato in qualche società privata, chi insegnava, chi era emigrato e aveva perso i contatti e chi si era accasato e, tra lavoro e figli, lo aveva anche dimenticato.
Quando si trovò di fronte quei due occhioni da bamboletta smarrita, che ti veniva voglia di rassicurarla anche se non era successo niente, si sentì come ringalluzzito e partì con i suoi modi da gentleman per metterla a suo agio. Ma non ci riuscì un gran che.
Mentre si dirigevano alla casa di Clò Riccardino camminava leggermente obliquo, per non perdere neanche un momento la visuale sul volto della ragazza che, adesso, oltre che intimidita sembrava pure intimorita da quelle occhiate così insistenti. Poi cercò di raccontare qualcosa per attaccare discorso, ma si vedeva che aveva perso lo smalto e la scioltezza degli anni giovanili: «Anche mia madre Nena una volta è scomparsa sa’. Poi l’abbiamo ritrovata in ospedale, poverina aveva perso la memoria per via di una caduta, le hanno preso dieci punti in testa, adesso sta bene…»
«Ma verrà anche lei adesso vero?» chiese la ragazza con voce supplichevole.
«Le ho appena scritto, guardi» manovrando velocemente il cellulare «le ho detto che l’aspettiamo in casa.»
«Poco fa ho parlato con la vicina, forse, forse dovrebbe salire con noi.»
«Non so da lei signorina, ma in questo paese tutti i vicini di casa sono degli impiccioni» quando lei non rispose lui capì che forse qualcosa in lui non l’aveva convinta: «Lei ha forse paura di me?»
«No, che dice? Certo non la conosco…» con l’aria più imbarazzata del solito.
«Guardi sono un bravo ragazzo sa’, certo ragazzo così per dire. Sono un insegnante di storia antica, adesso, momentaneamente voglio dire, disoccupato. Comunque mi arrangio con delle ripetizioni private…»
«Che storia triste» alzando gli occhi al cielo.
«Forse non gliene frega niente. Mi scusi, non sono il massimo quando si tratta di parlare…»
«Non si preoccupi, io soffro di timidezza cronica. La capisco, più o meno» e arrivarono a destinazione.
«Ecco, è al quarto piano, prendiamo l’ascensore?» chiese lui.
«Preferisco a piedi, soffro di claustrofobia.»

Appena aperta la porta un paffuto gatto nero si infilò tra le loro gambe; Marilù lo prese in braccio accarezzandolo.
«Sembra affamato» disse, e iniziarono a girare per le stanze.
«Non credo sia affamato. Mia sorella sale quasi ogni giorno e si prende cura di lui. Credo sia soltanto annoiato. Qui non c’è nessuno vede? Da quanti giorni manca sua zia?»
«Non la sento da…quarantuno giorni» e si accasciò su una sedia con gli occhi che le si fecero lucidi lucidi «deve essere successo qualcosa di brutto. Povera zietta.»
«No, la prego non pianga, la troveremo. Venga andiamo sul terrazzo» la prese per un braccio e lei lo seguì docile continuando ad accarezzare il gatto che sembrava trovarsi a suo agio.
«Vede laggiù, affianco al laghetto? Dietro quella fila di alberi a sinistra c’è la sua casetta, magari è andata a passare qualche giorno lì.»
«Dobbiamo scendere subito, presto!»
Riccardino la bloccò pensando alla faccia preoccupata di sua madre. Gli aveva chiesto esplicitamente di aspettarli lì, di non muoversi dall’appartamento. Che fare?
«Non possiamo, non ho le chiavi.»
«Cerchiamole allora» e, lasciando il gatto, Marilù iniziò a frugare sui mobili e nei cassetti: «Però guardi, è strano che non si sia portata dietro il deambulatore e qui c’è una borsetta piena di farmaci. Ne prende così tanti.»
«Vuole forse chiamare il commissario per denunciare la scomparsa?»

«Quale denuncia, sei pazzo? Non telefonate a nessuno!» la voce di Nena penetrava nell’orecchio di Riccardino così a fondo da fargli male: «Vi aspettiamo in villa, venite subito giù!»
«Ma le chiavi?» cercando di mantenere un’espressione calma mentre si chiedeva come mai sua madre aveva iniziato a parlare al plurale, e con quale tono poi!
«Sono attaccate alla copia che hai tu!»
«Ma cosa succede?» non ricordava la voce di sua madre così allarmata, così autoritaria, da quando lui, una ventina di anni prima, aveva distrutto la moto e si era quasi ammazzato, e lei gli aveva proibito di salire su qualsiasi mezzo con meno di quattro ruote. Pensava tutto questo con un filo di panico che gli stava provocando un sottile sudore freddo sulla fronte: «Mamma, io non capisco…»
«Lo so caro, lo so…però obbedisci a mamma tua e venite subito, vi aspettiamo qui in giardino.»