Il consulto con Cooper anziché rinfrancarlo aveva gettato Jack in un cupo sconforto.. La testa cominciò a dolergli. Prese un analgesico e si sdraiò sul divano con un panno fresco sulla fonte. Dopo una mezz’ora gli parve di sentirsi meglio, si alzò, prese un paio d’uova dal frigorifero e le fece al tegame con della salsa, accompagnate da una bottiglia di birra, quindi si sedette davanti al basso tavolino del soggiorno con mezzo bicchiere di brandy e studiò i pezzi sulla scacchiera, in un tentativo di ritorno alla normalità. La settimana prima aveva impostato una partita giocata nel 1914 da Capablanca contro Janowsky, una Ruy Lopez. Adesso era alla sedicesima mossa del Bianco, e dopo aver apprezzato lo spostamento della torre nera in b4 doveva rispondere. Tutt’altro che banale, ci stava pensando da un giorno intero: se spingeva il suo pedone in c4…
Rinunciò perché non riusciva a concentrarsi e decise che era giunto il momento di chiudere quella lunga giornata. Ingoiò un sonnifero e poco dopo s’addormentò.
Per un paio di giorni perdurò lo stato di allerta, con la tensione che non voleva allentarsi e lo andava progressivamente logorando. Aveva preso ferie e s’era reso irreperibile per tutti. Ma la solitudine non gli giovava, ingrandiva le ombre e acuiva le sue paure, e così la fronteggiava con l’alcool per non pensare e i sonniferi per dormire.
Da quel pericoloso torpore lo riscosse Nathan Cooper, preoccupato perché non rispondeva né al telefono fisso e neppure al cellulare.

«Jack, so che sei in casa, aprimi!» insistette, suonando più volte il campanello di casa.
«Cristo santo, lo so che sei dentro» urlò, richiamando l’attenzione dei vicini, «apri questa cazzo di porta o ti giuro che chiamo la polizia e la sfondiamo!»

Jack apparve sulla soglia, trasandato, con la camicia sporca, l’alito che sapeva di whisky e un’espressione vacua negli occhi.

«Mio Dio, Jack!» esclamò, sorpreso e disgustato, ma lui si limitò ad un’alzata di spalle, precedendolo nell’ingresso semi buio.

Entrato, Nathan, accese le luci, spalancò le finestre e tirò lo sciacquone nel bagno. Senza troppi complimenti spinse Jack sotto la doccia vestito senza che questi opponesse resistenza. Ma quando il getto violento dell’acqua lo investì, cominciò a dibattersi e ad urlare improperi.
Nathan gli porse un cambio di abiti asciutti. Cercò di aiutarlo a togliersi quelli sporchi e bagnati e a rivestirsi, ma l’altro lo respinse in malo modo facendolo scivolare sul pavimento bagnato. Cadendo Nathan si afferrò a lui e lo trascinò sul pavimento. I due uomini, a terra, lottarono brevemente. Jack, vago e scoordinato, ebbe la peggio.

«Vado in cucina a fare un caffè. Credo che ne abbiamo bisogno entrambi» disse Nathan alzandosi. Non c’era rancore nella sua voce.
«Cosa ti sta accadendo, amico mio?»
«Tu cosa pensi mi stia accadendo?».
«Ma in questo modo precipiti le cose. L’aneurisma potresti averlo dalla nascita, ma tu non ne eri a conoscenza e ci hai convissuto senza troppi fastidi. Un nemico che è uscito allo scoperto, ma questo ti dà modo di tenerlo sotto controllo, di vigilare…».
«Stai cercando di farmi vedere il bicchiere mezzo pieno? Ho usato anch’io questi palliativi con i miei pazienti quando dovevo fare un’analisi genetica. Solo che allora ero dall’altra parte della scrivania e mi sembravano consigli saggi. Ma sai una cosa? Credo di non essermi mai sforzato davvero di vedere le cose dal loro punto di vista».
E puntandogli il dito contro, aggiunse: «Esattamente come tu stai facendo con me!».
«Cosa vuoi che ti dica Jack? Che dovrai morire? Tutti, per un motivo o l’altro, dovremo morire, ma per quel che ti riguarda non è detto che sarà a causa dell’aneurisma. Ci puoi convivere, come migliaia di altri, devi solo imparare a gestirlo».
Jack sorrise amaro: «Posso ritardare l’esplosione del detonatore nella mia testa, ma non disinnescarlo. Sono un morto che cammina. Avevo intenzione di chiedere a Phoebe di sposarmi, ma ora niente ha più importanza».
« Mettila al corrente di quello che ti sta accadendo, lascia che sia lei a decidere.
«Ma lei ha già deciso!» esclamò Jack, scoppiando in una risata senza allegria.
«Cosa ha deciso?».
«Che io sono matto… Non è quello che pensi anche tu?».

Nathan ebbe un gesto di esasperazione.

«Se continui a comportarti come un bambino non migliorerai certo la situazione! Resta a compiangerti tutto il giorno, mi sono rotto i coglioni!».

Jack non raccolse la provocazione. Continuavano a fronteggiarsi in silenzio. Nathan aveva perso molto del suo vantaggio mentre lui, col suo atteggiamento passivo, ne aveva guadagnato un bel po’. Partita patta per stallo. Istintivamente i suoi occhi andarono alla scacchiera.
Nathan intercettò il suo sguardo.

«Stavi giocando da solo?».
Jack annuì «Capablanca contro Janowsky».
«A chi tocca muovere?».
«Al bianco».
«Io muoverei l’alfiere qui» disse Cooper spostando il pezzo.
Jack saltò su.
«No!» disse, rimettendo l’alfiere al suo posto Una mossa del cazzo… così comprometti la partita!».
Nathan rise divertito.
«Hai visto che non è vero che non t’importa più di niente?».

Jack per un attimo lo guardò incerto, come se non avesse compreso, ma poi anche lui scoppiò a ridere.
L’amico gli batté una mano sulla spalla.

«Adesso devo andare» disse alzandosi, «Muriel mi avrà dato per disperso».
«Grazie » gli disse Jack riconoscente.
Nathan raggiunse la porta, ma prima di uscire si girò:
«E accendi quel cazzo di cellulare!».

Quando Nathan se ne fu andato, un insopportabile silenzio avvolse la casa e la sensazione di essere solo al mondo s’impadronì di Jack. Fuori era già buio. Accese la televisione ma tolse l’audio, e sedette in poltrona, unico spettatore di quel film muto. Iniziò a far zapping senza soffermarsi su nessun canale. Di nuovo le sequenze del Green Hill Country Club: senza audio, quello scenario di morte, risaltava ancor più vivido nella sua drammaticità. La telecamera indugiava sulla vetrata con la striscia di sangue di Freddy, l’immagine rappresentativa della strage. Spense la tv e chiuse gli occhi.

«Sono addolorato, Jack, ma non era possibile salvare anche loro».

Jack rimase fermo al suo posto. Sapeva che seppure avesse cercato non avrebbe visto nessuno. Era stato così a Forest Park e al Green Hill Club. Sarebbe stato così anche ora.

«Chi sei?» chiese. La sua voce era poco più di un sussurro.
«Il mio nome è Jeff Durrell e ti parlo da una realtà parallela, un mondo come il tuo che esiste in uno spazio di probabilità alternativo. Le comunicazioni tra noi sono possibili solo attraverso un fenomeno molto particolare che tenterò di spiegarti, ma sebbene sembriamo vicini siamo infinitamente lontani».

La risposta era arrivata in differita, con qualche istante di ritardo come accade nelle comunicazioni via satellite.

«In quale parte della stanza sei in questo momento? Mi rimane difficile parlare con un fantasma».
«Non sono un fantasma ma un uomo in carne ed ossa come te, e non sono fisicamente nella stanza ma interagisco da una cabina del Diamond Mountain Observatory, da dove, per via dell’immensa distanza, mi è possibile raggiungerti solo con la voce».

Jack andò alla finestra e alzò il vetro. Un soffio d’aria fredda irruppe nella stanza, portando con sé l’odore umido della strada e della notte. Il rumore del traffico, le luci dei lampioni e l’abbaiare di un cane raccontavano di un mondo conosciuto che continuava a vivere esattamente come prima. Ritornò a voltarsi verso la stanza e il suo invisibile interlocutore.

«Non è possibile che tutto questo stia succedendo davvero!».
«So che è difficile credere a quello che sta accadendo, ma ti chiedo di pensare agli avvenimenti dei giorni scorsi e di prestarmi attenzione finché non avrò finito di parlare».
«Non penso di avere altra alternativa» replicò amaro Jack.
«Temo di no» rispose Durrell, riprendendo il suo racconto, «i nostri mondi sono entrambi tridimensionali, o almeno, noi uomini li percepiamo come tali nonostante le dimensioni spaziali siano dieci, e queste sono immutabili. Secondo la teoria del Multiverso di Poplawski, che tu probabilmente non conoscerai perché non sei del campo, oppure nel tuo universo il dottor Poplawski non esiste o non l’ha ancora sviluppata, la gravità genera nello spazio rotazioni e torsioni che, arrivando all’estremo, ne perturbano la simmetria comprimendo la massa fino a concentrarla in un singolo punto e a provocare la creazione di un nuovo universo attraverso una specie di big bounce all’interno quello che sotto tutti gli aspetti è un buco nero».
«Aspetta!» lo interruppe Jack «tu stai dicendo che ogni buco nero dell’universo ha generato un altro universo? Che esistono infiniti universi?».
«La teoria del multiverso implica l’esistenza di un numero indefinito di universi paralleli, così come implica la non esistenza di un tempo precedente all’era di Planck in cui tutto ha avuto inizio, quando il buco nero primordiale è entrato in una fluttuazione quantistica che ha auto-generato il primo universo. Secondo quella teoria il tuo Universo non è altro che l’interno di uno dei buchi neri di un altro Universo, il nostro, o viceversa».
«Da… da dove mi stai parlando?».
«In termini spaziali distiamo poco più di mille anni luce, a parte la singolarità del buco nero, che non è misurabile. In termini temporali il nostro mondo è circa cinquant’anni più avanti del tuo».
«E stiamo conversando come se fossimo tutti e due in questa stanza? Come è possibile?».
«Possiamo parlare in questo modo perché io e te siamo in entanglement. Quello che è importante tu sappia è che il confine tra gli Universi passa attraverso il cosiddetto orizzonte degli eventi, che è definito come la superficie oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno. Attraverso un effetto della meccanica quantistica, in determinate condizioni due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di uno più ampio, il cui stato quantico è descrivibile come sovrapposizione di più stati. L’entanglement, questo è il nome dell’effetto, implica la presenza di correlazioni a distanza, teoricamente senza alcun limite, tra le loro quantità fisiche».

Durrell tacque per dare tempo a Jack d’immagazzinare le informazioni.

«E che differenza c’è? È comunque un punto teorico, irraggiungibile» disse, riflettendo, il biologo.
«Qui ti sbagli: è raggiungibile e noi l’abbiamo raggiunto: due oggetti correlati continuano ad esserlo, istantaneamente, in ogni punto di ogni universo. In particolare, le rappresentazioni in qubit di due schemi mentali, uno nel mio universo e l’altro sull’orizzonte degli eventi del buco nero più vicino alla Terra nel tuo universo possono essere messi in correlazione e quindi sovrapposti».

La possibilità di quella realtà evocata gli procurò un senso di vertigine, per cui dovette sedersi.

«Esiste un buco nero relativamente vicino alla Terra, a circa mille anni luce, nella costellazione Telescopio» continuò Durrell, «non siamo certi che sia il più vicino, ma è il più vicino che abbiamo trovato. Il corrispondente nel nostro universo, per fortuna, è a meno di dieci anni luce da noi. Lì  è stato mandato il mio schema mentale e successivamente trasmesso attraverso il buco nero. Questo non è complicato, una volta entrato nella singolarità riappare istantaneamente dall’altra parte».

Stavolta la pausa fu più lunga e significativa.

«Aspetta un attimo!» esplose Jack «mi stai dicendo che tutto questo è già avvenuto?».
«Non confondere quello che è già avvenuto con quello che avverrà. Noi possiamo spostarci sulla vostra linea temporale e portare una rappresentazione digitalizzata di uno schema mentale – uno stato fisico – nel tuo passato, metterla in correlazione quantistica con uno stato fisico del tuo universo e, viceversa, raccogliere uno schema mentale da voi e trasmetterlo qui, ma è necessario che tutto ciò effettivamente si verifichi, per questo ci occorre la tua collaborazione. Purtroppo non è possibile farlo nel nostro stesso universo, altrimenti non ti avremmo cercato e sarebbe stato tutto molto più facile, credimi».
«Non ho capito quasi niente di quello che mi hai raccontato. Il tuo… schema mentale, da come parli, dovrebbe essere comparso nel mio universo… a mille anni luce da qui?».
«Esatto».
«E allora come ha fatto a raggiungere la Terra?».
«Questa è stata la cosa più semplice: l’abbiamo inviato dall’orizzonte degli eventi nella vostra direzione, mille anni fa».

Jack rimase in silenzio, sopraffatto dalla grandezza della visione. Se ne distolse tornando alla realtà per porre quella domanda che non poteva più rimandare: «Ma perché tutto questo?».
«Siamo disperati. Abbiamo investito tutte le nostre risorse in questo progetto».
«Tutte le vostre risorse?».
«Una quantità inimmaginabile di energia, ma non è l’energia che ci manca: sono gli esseri umani. Il tuo tempo sta per finire, il nostro è già finito».
«Cosa intendi dire?».
«Che tu stai per morire».
«No, non è vero!» urlò Jack sconvolto, «con l’aneurisma posso conviverci… mi ha assicurato  Nathan che non è di proporzioni tali…».
«Mi dispiace, Jack, ma le cose andranno diversamente» disse Durrell dispiaciuto.
«Ma tu mi salverai, vero? Mi avvertirai del pericolo… lo hai già fatto!» implorò Jack totalmente in preda del panico.
«Non potrò farlo, per la nostra sopravvivenza occorrerà che tu muoia».
« Stai bluffando…» biascicò Jack «potevi lasciarmi morire a Forest Park o al Green Hill Club… potevi… invece mi hai protetto».
«Non era il momento che tu morissi».
«Maledetto figlio di puttana! Esci allo scoperto, se sei davvero un uomo. Mostrati!». Urlò, scagliando contro le pareti qualunque oggetto gli capitasse a tiro, finché esausto si lasciò cadere sulla poltrona.
«Jack, le cose non sono come sembrano. Lasciami spiegare…»,

Jack lanciò nella direzione da cui pensava provenisse la voce di Durrell un pesante fermacarte, che andò ad infrangere il vetro della finestra.
Nella stanza scese un lugubre silenzio.

«Anche se io sparissi, Jack, questo non ti salverà dal tuo destino. Il fatto che riusciamo a vedere parzialmente nel vostro asse temporale ci ha permesso di sapere che non ti resta ancora molto da vivere.
Abbiamo bisogno di te nel nostro mondo, e il transfert, non sappiamo per quale motivo, può avvenire soltanto in caso di morte improvvisa. Morirai qui per rivivere nel nostro mondo. Ma per far si che questo accada ci sono alcune cose che devono essere programmate… e dobbiamo fare in fretta, perché di tempo ne resta davvero poco».
«Quanto?».

Durrell non rispose.