«Viola spalancò le persiane, fece il letto, sprimacciò i cuscini. E replicò gli stessi gesti in ogni stanza, come in una favola dei fratelli Grimm.»

Viola si fermò davanti alla porta dell’ultima stanza, quella più luminosa, quella che si affacciava verso sud, verso il mare, e un’ondata di ricordi la travolse:

«Mamma, mi fai vedere che cosa c’è lì dentro?»
«Vecchie cose di nonna …».
«Ti prego …».
Mamma aprì l’ultimo cassetto del vecchio comò che profumava di lavanda.
Tra tante cianfrusaglie, spuntò una coroncina del rosario con i grani in legno consumati e sbiaditi, un ventaglio di pizzo nero, un’immagine della Madonna di Lourdes, un ingiallito plico di lettere, un paio di guanti consumati, una scatola di vecchie foto in bianco e nero.
Il ritratto dei nonni vestiti in stile primo ottocento; lo zio Fily (il fratello di mamma) in divisa da Bersagliere in bicicletta, mamma con l’abito bianco della prima comunione…

La casa era vecchia, “restaurata nel milleottocentoquindici” citava una targa posta sulla facciata consumata dal tempo e sembrava triste e parve sussurrare:
«Perché vuoi farmi questo?».
Almeno, così sembrò a Viola che era tornata in quella casa dove un tempo era stata felice.
Era venuta con l’intenzione di trovare un po’ di sollievo tra quelle mura che credeva amiche dove aveva vissuto finché c’erano i suoi genitori, quando aveva davanti una vita piena di sogni e di promesse, quando era ragazza e piena di illusioni.
Dopo che aveva lasciato Giorgio, circa un anno prima, con tanto coraggio, era caduta in depressione e stava trascurando tutto: il lavoro, gli amici, i suoi hobby.
Pensò con rammarico a quella relazione strampalata e ricacciò indietro le lacrime che le bruciavano gli occhi.
«La stupida sono stata io a cadere nel suo tranello, ad avere creduto alla sue false promesse, ad illudermi …», gemette mentre cercava di scacciare il ricordo di quel maledetto, scontato e classico triangolo amoroso: lui, la moglie e lei, l’abusiva.
Una relazione trascinata per quasi dieci anni che l’aveva lasciata delusa e svuotata.
I momenti di intensa passione si erano succeduti ad altri di solitudine e disperazione; aveva prevalso la sua ragionevolezza.

Viola aveva sistemato le prime due stanze, spolverato, rifatto i letti, coperto tutto con vecchi lenzuoli bandendo i pensieri molesti che si accumulavano nella sua mente in maniera ossessiva.
Stava aspettando l’incaricato dell’agenzia a cui si era appoggiata per mettere in vendita la casa.
Non riusciva a pensare senza dolore al fatto che disfarsene era un po’ come spegnere per sempre una parte importante della storia della sua famiglia.
Entrò nell’ultima stanza dove aveva dormito per anni, quando era bambina e spalancò la persiana della vecchia finestra che si aprì cigolando con un lamento simile a quello di un’anziana signora sofferente di artrite.
Si affacciò al balcone e guardò l’orizzonte.
Il terreno davanti alla casa scivolava dolcemente verso valle; sullo sfondo, s’intravedeva un triangolo di mare e gli ulivi che si perdevano all’orizzonte, si muovevano come onde accarezzate dal vento del sud.
«Credo che disfarsene, sia la decisione migliore», considerò a bassa voce guardandosi attorno e respirando l’aria che sapeva di polvere e di chiuso.
L’odore di pungente di muffa le procurò quasi un senso di soffocamento e di vertigine e fu sommersa da altri ricordi.

«Mamma, perché mi hai chiamato Viola?»
«Perché è il mio fiore preferito e perché tu sei delicata e bella come un fiore».
Immaginò Mamma che rideva con la sua risata contagiosa e la ricordò ancora più affascinante nei suoi allegri abiti a fiori dai colori vivaci.
Mamma cantava spesso, oh sì, cantava felice con la sua voce intonata e calda …

All’improvviso, Viola ebbe voglia di fuggire, di abbandonare quel luogo nel quale aveva vissuto serena per tanto tempo ma che oramai credeva appartenesse al passato.
Avrebbe voluto che rimanesse solo un piacevole ricordo, invece il luogo sembrava soffocarla e accusarla di tradimento.
D’impulso prese il cellulare:
«Pronto, sono Viola S., volevo disdire l’appuntamento di oggi pomeriggio».
«Sì, ho cambiato idea, voglio pensarci ancora un po’. Vi contatterò io, buongiorno».
Scese al piano terra, spalancò le finestre del salone e il sole la abbagliò, il vecchio camino in pietra sembrò incitarla:
«Dai, prova ad accendermi».
Il grande tavolo di legno massiccio e le sedie impagliate che riempivano l’ambiente sembravano invitarla ad un allegro convivio.
Osservò l’ampia parete tra le due grandi finestre, la tastò con la mano facendo cadere un po’ di intonaco ammuffito poi, come presa da un impulso irresistibile, raccolse il pezzo di un vecchio tizzone carbonizzato abbandonato accanto al camino e, con rapidi gesti, iniziò a fare uno schizzo veloce.
Lavorò alcuni minuti, si allontanò, aggiustò la prospettiva con pochi tratti sapienti, tornò a osservare il tutto ed esclamò sorridendo:
«D’accordo, hai vinto tu, vecchia puttana sgangherata, forse vale la pena rimetterti in sesto e ricominciare una nuova vita da qui!» e sorrise rivolta ai muri che la guardavano sorridenti.
Viola aveva deciso d’impulso, avrebbe venduto l’appartamento in città e si sarebbe trasferita lì, in quella piccola oasi circondata dal verde.
Adesso provava una immensa euforia, una sensazione di benessere s’impossessò di lei e pensò che non era mai troppo tardi per ricominciare.
Non dipingeva da anni ma la voglia le tornò come un bisogno urgente e prepotente.
Avrebbe ridato vita alla vita.
Uscì nel piccolo giardino incolto, si avvicinò al vecchio pozzo di pietra, si sedette sotto il pergolato spoglio e trascurato, accarezzò quasi con tenerezza un piccolo germoglio di edera che aveva resistito nel tempo.
Avrebbe contattato Beppe, il vecchio contadino che controllava ogni tanto la casa, e avrebbe iniziato proprio da lì: dal vecchio pozzo e dal piccolo giardino.