Il vizio della lettura l’ho contratto piuttosto presto. Da preadolescente, quando per colpa della situazione atmosferica o per “disposizioni superiori” non potevo andare per strada a giocare coi miei coetanei, m’annoiavo a morte. A quei tempi la televisione c’era ma pochi l’avevano in casa e non noi, comunque. E poi c’erano due canali soli che non trasmettevano 24 ore su 24. Videogiochi e amenità del genere erano ben lungi dall’essere persino immaginati: d’inverno c’erano i compiti da fare e qualche “mansione casalinga” da rispettare. D’estate ovviamente si stava in giro ma c’erano orari di coprifuoco ed io, che di pomeriggio non amavo dormire, nel silenzio della casa fremevo nella ricerca di come ammazzare il tempo.

Non sapevo ancora che ammazzando il tempo, in realtà è lui che ammazza te, ma questo è un altro discorso che ci porta lontano. Insomma finì che per vincere la noia iniziai a sfogliare i libri che trovavo in casa.

Non c’era molto, sinceramente: i libri a quei tempi erano quasi un lusso e da noi erano piuttosto carenti gli spazi per il lusso. Però qualcosa c’era. Mio padre era abbonato ad una rivista mensile: il Reader’s Digest. Era la versione italiana (l’avrei saputo molti anni dopo) di un diffusissimo magazine americano ove venivano riprodotti estratti di romanzi. Immagino fosse un modo per sponsorizzarne (termine allora impensabile) la lettura. È stato su quelle pagine in ogni modo che ho cominciato a conoscere il mondo della letteratura.

Ricordo benissimo ad esempio quanto rimasi affascinato dall’estratto del Buio oltre la siepe di Harper Lee.

Solo molti anni dopo, quando finalmente lessi tutto intero il romanzo, scoprii che la versione ristretta era stata totalmente “ripulita” delle parti scabrose e più dure (ed anche più drammatiche). Insomma un duplice obbiettivo: diffondere pubblicazioni ed edulcorale secondo il modello moralista dei tempi.

Non c’era solo il Reader’s; pochi, ma avevamo anche altri libri. E fu allora che ebbi i primi contatti con la letteratura americana di John Steinbeck di cui, se non ricordo male, avevamo Furore e Pian della Tortilla. Fu amore a prima vista: affascinato da quella narrazione così diversa dai classici che ci propinavano a scuola, conquistato dai temi sociali e dalle battaglie civili. Steinbeck scrive soprattutto d’una America che lotta con la famosa Depressione e che ha i primi contatti con le ideologie di sinistra, marxista in primis. Nel mio universo di adolescente che s’affacciava al mondo e cominciava a verificare quanto in giro si predicasse bene e razzolasse male, “misurarsi” con quelle storie era un esercizio prezioso e che avrebbe contribuito non poco alla costruzione della mia personalità (ed anche a tanti miei sbagli, quindi).

So per certo che lessi anche altra roba in casa, ma non ricordo più cosa. Come ricordo che, una volta sfogliato tutto quanto offriva quel convento, sentii prepotente il bisogno di non fermarmi. Poche librerie c’erano in giro nella mia provincia, che vivacchiavano soprattutto vendendo libri scolastici: ma in vetrina c’era un gran via via di pubblicazioni che esercitavano su di me un grande fascino. Tuttavia, a quei tempi, il loro costo era decisamente elevato, di sicuro non praticabile per le mie tasche. Un lusso, come dicevo. Ma c’era una soluzione: la biblioteca. Anzi: le biblioteche. A Viterbo, dove sono cresciuto, ce n’erano due ed erano molto frequentate da studenti universitari che vi si recavano a preparare i loro esami soprattutto, ma anche per consultare testi costosi e in edizioni rare.

In quegli enormi ed imponenti scaffali c’era tutto un mondo. Anche quello che cercavo io: letteratura. Le prime volte ero intimidito di fronte a tanta abbondanza ed anche dalla “seriosità” quasi sacrale del luogo.

Pareva d’essere in chiesa se non fosse stato che non c’erano ceri accesi e che l’unico rito ammesso era il silenzio della consultazione. Ovviamente, essendo poco più che un ragazzo, il richiamo della strada e dei coetanei era forte e prepotente, tale che, alla resa dei conti, la mia presenza nel tempio del sapere (così lo vedevo) non fu certo molto frequente. Ma di sicuro servì a due cose: intanto potei continuare a frequentare Steinbeck ed ampliarne la conoscenza. Poi mi accadde, pian piano, di conoscere molti altri scrittori, di cui parlerò via in questa rubrica.

Ma di uno vorrei far cenno ora: Giovannino Guareschi. È una figura strana alla quale, peraltro, a tutt’oggi sono ancora molto affezionato. Personaggio curioso, di sicuro “voce fuori dal coro” diremmo oggi, era un giornalista che nel tempo aveva pubblicato anche un bel po’ di libri. Molto ironico, era anche un buon disegnatore che si “illustrava” da solo le sue storie. I suoi personaggi più famosi sono i famosissimi Peppone e Don Camillo, da cui furono tratti anche epici film con Fernandel e Gino Cervi. Scrivendo nel periodo post bellico e con la guerra fredda agli inizi, certe sue posizioni furono oggetto di polemiche ed anche di un certo ostracismo da parte di una certa “intellighenzia letteraria”. Personalmente so che i suoi libri mi divertivano e, avendoli letti in biblioteca, mi capitava di dover uscire per non ritrovarmi a violare la sacralità dell’ambiente sghignazzando senza ritegno. Ingenuità mia a parte, penso che Guareschi avrebbe apprezzato, col suo humor, queste mie fughe…

Eccomi dunque ad aver parlato di due autori radicalmente diversi in idee e modo di scrivere, quasi a confermare la varietà della mia raccolta. Condividono, a mio avviso, un gran pregio: l’essere molto umani.

Ma questa, se lo è, è una virtù che un po’ tutti gli scrittori che amo possiedono. Di ambedue, una volta che in qualche modo ho potuto cominciare a comprare libri, pian piano ho comprato pressoché tutte le opere.

E le ho lette…