Leggere poesie è cosa diversa

È giunto il momento di affrontare un angolo speciale della biblioteca del nonno: quello della poesia. E, tanto per fare una cosa nuova, è il caso di premettere qualche considerazione.

La prima: è da quando sono adolescente che scrivo poesie. In molti lo fanno a quell’età, poi crescono, diventano uomini (o donne) e saggiamente smettono, redimendosi almeno parzialmente. Io no, ho continuato e insisto imperterrito nel mio peccato. Ma, se debbo dar retta a quello che si dice sulle riviste specializzate (pochine, in verità) sono tutt’altro che una mosca bianca. Sostengono anzi che basterebbe che chi scrive poesie comprasse almeno un libro di liriche per risollevare questo disastrato ramo dell’editoria.

In compenso, vista la caduta verticale dei costi di stampa dovuta all’avvento delle tecnologie digitali, sono a dismisura aumentati quelli che auto pubblicano i propri parti poetici (non ho detto “aborti”… l’avete pensato voi che siete maligni). Che poi nessuno compra, ovviamente, ma questo permette ad una miriade di piccoli pseudo-editori di sopravvivere in barba alla imperante penuria di lettori. Ma, tornando al mio essere “scrittore di poesie”, questo incide abbastanza sulla mia veste di lettore, come vedremo.

La seconda considerazione che mi viene spontaneo premettere è che leggere un libro di poesie è cosa totalmente diversa dal leggere un romanzo (come del resto un saggio). Le poesie sono flash o, se preferite, “schioppettate”, strappi d’immagine, visioni oniriche, coltellate della fantasia. E quando ne hai lette un paio, tre al massimo, ti devi fermare a digerirle. Poi magari le rileggi dieci, venti volte, finché non senti d’aver trovato la simbiosi con chi l’ha scritta. Più spesso le dimentichi. Per poi vederle spuntar fuori improvvise quando meno te lo aspetti. Difficile allora completare un libro di poesie, almeno per me. Del resto, specie con l’avvento di Internet, è invece facilissimo (e meraviglioso, aggiungo) trovare poesie sul web e farne scorpacciata.

La terza (ed ultima) premessa è che non m’ha mai troppo sconfinferato la poesia in rima. Di sicuro ho ammirato Dante, Petrarca e tanti altri, fino a Carducci e Pascoli: poeti notevoli e grandi letterati. Ma il vero colpo di fulmine, almeno per me, furono i primi contatti con i poeti italiani del Novecento che di rima non ne masticavano. Al tempo stesso la prima metà del ‘900 è stato per la poesia italiana un periodo di grandissimo fermento o, almeno, lo è stato per me che l’ho conosciuta ed amata già poco più che ragazzo. E da cui ho preteso di trarre ispirazione, ma questo è altro discorso.

E qui mi corre l’obbligo di una quarta premessa (lo so, avevo detto che la terza era l’ultima: così imparate a fidarvi dei “poeti” o, meglio, di quelli che scrivono poesie). Quanto sto per dire è vero per un po’ tutta la letteratura in generale, ma lo è molto di più per la poesia: la traduzione di una poesia distrugge, al 99% la melodia che l’autore ha messo nelle sue parole. Se in prosa un bravo traduttore può far miracoli a rendere lo stile d’un autore straniero, in poesia funziona molto meno. Questo per dire semplicemente che sì, leggo anche molti poeti stranieri, li apprezzo per quello che posso, ma non potranno mai trasmettermi l’emozione d’un poeta italiano.

Ora ho necessità d’un’altra premessa (non dite che non v’avevo avvertito…): sarebbe una schiera molto nutrita quella dei poeti che dovrei chiamare in causa. Ungaretti, Quasimodo, Montale, Cardarelli e tanti altri han dato grandissimo lustro (e qualcuno anche premi Nobel) alla poesia italiana moderna. Ciascuno meriterebbe un capitolo a parte. Come del resto, seppure forse non in maniera così eclatante, altri poeti che vado scoprendo o che occupano un periodo successivo, forse meno vivace anche perché i nomi citati avevano consumato molto sia della novità, sia della facondia espressiva (opinione personalissima da prendere con le molle). Non posso dar loro questo spazio: mi odiereste e finirei per impegolarmi in un discorso critico dove annegherei senza speranza.

Un rapporto speciale con Cesare Pavese

Il diluvio di premesse per dire che, se alla fine ne scelgo uno di poeta, non è perché sia il migliore o abbia fatto qualcosa di specialissimo. Tutti i poeti, a modo loro, sono specialissimi e cercare il migliore è cosa insensata visto che ognuno di noi ha corde diverse e melodie specifiche emergono in risonanza ad una parola o ad un verso. Come dicevo ne ho amato e ne amo tanti di poeti, ma da sempre ho un rapporto speciale con uno di loro, Cesare Pavese.

Non so dire il perché di questa scelta. Di sicuro gioca un ruolo il fatto che morì suicida ad “appena” (ma all’epoca non erano così pochi) 42 anni, come una qualche sintonia la provo per il suo essere melanconico e, di conseguenza, vicino ai tipici momenti “adolescenziali” che tantissimi vivono. Altrettanto certo è il fascino della sua modernità, laddove è capace di coniugare con grande facilità un’idea classica della vita – e forse romantica – di chiara eredità europea con lo slancio energetico della letteratura americana che Cesare amava e traduceva. Ma, al di là delle complicate alchimie d’una pretestuosa critica letteraria, la sua poesia la sento vicina, umana, fragile e, al tempo stesso, ricca di vita e di partecipazione sociale. Mi piace anche il Pavese che scrive romanzi, anche se non ho letto moltissimo, ma il filo diretto con lui resta sempre quello della poesia.

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,

in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo

mio cugino è un gigante vestito di bianco,

che si muove pacato, abbronzato nel volto,

taciturno. Tacere è la nostra virtù. […]

Indimenticabile questo sua attacco d’una delle sue più belle composizioni: I mari del Sud. C’è una pacatezza ed una grandezza in questa immagine che m’ha sempre dato l’impressione d’essere la chiave di volta per entrare in un mondo speciale e spettacolare.

Le poesie, devo affrettarmi a dirlo, non si spiegano. Non capirò mai quelli che si perdono in mille astrusità per dar loro un senso. Mi vien da pensare che tanti, troppi critici di poesia sian solo dei poeti mancati che tentano inutilmente di recuperare qualcosa in cui hanno fallito. Cercherò quindi di evitare di cadere nella stessa trappola e, nella mia limitatezza, ho un solo modo. Quello cioè di concludere con la poesia di Pavese che forse più di ogni altra (ma c’è solo l’imbarazzo della scelta, credetemi) mi colpì da giovanissimo e mi colpisce tutt’ora, ovvero quella che ho citato nel titolo di questo scaffale. È sin troppo evidente e facile capire che fu scritta poco tempo prima (5 mesi) del suicidio e che dice tutto quello che c’è da dire in proposito. Una sorta d’ultima preghiera, insomma.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.