Il doping allora era caffè carico, in quantità industriali, che più di spaccarti lo stomaco non faceva. Per i massaggi ti dovevi arrangiare: olio canforato o sifcamina, ma se non correvi proprio una cronometro ne facevi a meno, con tutto il tempo che ci voleva a levarti la puzza di dosso.

E poi, trasferte che cominciavano la mattina presto e finivano la sera tardi, per andare a correre in Piemonte, a Nizza Monferrato, dove c’erano colline e non montagne come da noi in Liguria, dove io con i miei ottanta chili potevo dire la mia, sul passo veloce o in volata, sempre che riuscissi ad inserirmi in uno dei treni che ti portavano davanti, e a questo serviva la pompetta che tutti avevamo sul cannotto: non a cambiare il tubolare ma a darla sulla schiena all’avversario, possibilmente senza romperla, ché costava cara e dovevi già raccattare i soldi per la benzina. Anni che cominciavano a febbraio, tremila chilometri con la ruota fissa, ed arrivavi ad aprile, quando facevi potenza e finalmente potevi usare il rapporto, che avevi la nausea di far girare le gambe ma andavi a 120 pedalate al minuto allo sprint, cosa che oggi se lo sognano anche alla tv.

Però adesso vanno in salita come treni, qualcosa come 600 watt all’ora, roba da manuale della chimica: li vedi da bordo strada prendere certe salitelle, in cui magari non arranchi proprio ma vai su con prudenza, che tirano un tredici come niente, e ti domandi: ma io che sport facevo?

La Liguria non è terra di ciclisti: troppe salite ripide e nervose che spaccano le gambe e non insegnano niente. Io, poi, con il mio peso vedevo quelli bravi scattarmi davanti e sapevo che li avrei rivisti all’arrivo, perché dopo la salita c’era una discesina e poi un’altra salita, e così via fino al traguardo. Invece andando fuori trovavi corse più lunghe, salite più regolari dove potevi scandire il tuo passo, in cui guardavi in faccia gli avversari – perché quando corri in bici è anche un gioco di sguardi, non solo di gambe – e gli facevi capire: «Scatta, scatta, se vuoi, ma se non tieni quel ritmo fino in cima, se riesco a venire a riprenderti salendo con il mio passo, allora ti massacro.» E il più delle volte rinunciavano a scattare. Poi se stavi bene ti mettevi davanti e cominciavi a tirare con regolarità, e il gruppo rimaneva unito, poi arrivavi in pianura e allora servivano quei due mesi invernali passati a far mulinare le gambe come un matto, perché la pedalata rotonda che avevi ti faceva volare come il vento, quasi senza sforzo.

Ancora oggi, nelle rare uscite domenicali sulle Riviere, ogni tanto mi diverto a mettere giù la testa e arrotondare la pedalata, e allora difficilmente qualcuno mette il naso fuori dalla fila, per cinque, dieci chilometri, certo, ma a sessanta all’ora, senza tripla e col mio cinquantadue per dodici che sembra cantare, mentre i raggi d’acciaio frullano nel sole che è una bellezza.

Ancora oggi, ma solo fino ad aprile, che vada bene, perché poi nei fine settimana arrivano i turisti, migliaia di macchine che parcheggiano ovunque e fanno manovre impossibili nelle strette strade dei paesini rivieraschi, ed allora è più facile andare per terra che stare in piedi, e nei giorni feriali ci sono centinaia di furgoni che fanno anche di peggio, ed è davvero troppo pericoloso.

Oggi, quando vedo un ciclista professionista mi stupisco per la sua incredibile magrezza, quei sederi che sembrano non esistere, quelle gambe magre che pure hanno la dinamite dentro, e penso che tutto sta per finire, travolto dalla televisione, dalla moda, dai telai in carbonio e kevlar, dalle biciclette da diecimila euro, dagli ipod infilati nelle orecchie (e il rumore dell’aria, dei grilli, lo stormire delle fronde degli alberi, come li senti?), dai cellulari che tutti hanno e che senti continuamente squillare nel gruppo. Oggi mi domando: ma che senso ha tutto questo? Ed allora preferisco prendere la mia vecchia bici ed andare da solo sulle strade di campagna, in mezzo ai pioppi, dove non passano orde di ciclisti multicolori ed iperaccessoriati e non devi stare continuamente attento a non farti arrotare dai camion ma dove può capitare di fermarti ad una fontana e scoprire quanto è buona quell’acqua fresca quando hai sete, e magari salutare una ragazza che sta andando a fare la spesa, ed essere ricambiato.