La luce calda del mattino si specchia sulle vecchie finestre di case a due piani, imperlando il bianco antico delle strade in pietra.
Una brezza calda e leggera diffonde profumo di gelsomini, lilium, di quelle che ho scoperto essere esotiche violette africane. Si mescolano sfacciate al burro fuso e zuccherato del caffè del corso, in un giorno maledettamente perfetto.
Una donna ride e chiacchiera alla sua vicina, mentre prendono posto su un colorato tavolino all’aperto. È rossa, ha un volto conosciuto, forse persino mi sorride, e lo capisco, lo capisco subito che si sta chiedendo anche quando è che ci siamo già incontrate. In fondo, qui, si conoscono un po’ tutti. Abbasso la testa, affretto il passo in silenzio, tiro avanti come quando al liceo era meglio non salutarmi prima che il mio orologio biologico desse l’ok, alle undici circa.
Oggi spero proprio che non ne venga a capo, oggi no, non oggi. Sono fuori posto in questo anticipo di primavera, e a rincarar la dose, se non fossi così distante dal mare giurerei persino di inalare salsedine.
Sono un’ombra in china in un dipinto ad acquarello.
Mi fermo a guardare la grande fontana, chiudo gli occhi e mi immergo nel suo scrosciare. Mi parla di vite antiche e di storie trascorse come l’acqua.
È tutto così perfetto oggi, lo giuro, perfetto, ma resta uno sfondo confuso da attraversare, mentre respiro, e respiro, come mi hanno insegnato, senza riuscire a colmare il mio abisso.

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