NECROPOLI, DI  VLADISLAV CHODASEVIC  Erano uomini che vivevano in Russia, all’alba del XX secolo. Uomini che si aggrappavano a un vascello, in attesa del nubifragio. Uomini che sarebbero stati distrutti, spazzati via, cancellati per sempre da un grande cataclisma. La Guerra, la Rivoluzione, la fine del mondo che avevano conosciuto. Forse non erano poeti, e nemmeno artisti: erano commedianti, che recitavano la vita come su un palco, in attesa di sbocciare, e accecare il pubblico. Li chiamavano “simbolisti”: le loro opere erano pervase di simboli esoterici, di chiavi nascoste, per accedere finalmente a un altro mondo. Questo non gli bastava. Avevano alle spalle l’assoluta grandezza – la cosiddetta Età Dell’Oro, in cui erano fioriti Puskin, Gogol, Cechov, Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij – e non potevano accontentarsi di poco. Le due lire della cosiddetta “società letteraria”, in quella Russia, erano troppo misere per loro. Meglio affrontare la morte, se veniva con la gloria.

 

Chodasevic era uno di loro. Uomo freddo, cinico, a tratti subdolo e falso, ha avuto il merito di preservare quei nomi. Di scriverli, di nominarli uno a uno, fino a salvarli dal Tempo: Belyj, Blok, Brjusov, Balmont e Sologub, Bunin e Gorkij, e tanti altri. Come lettere incise nel marmo, che possono resistere al freddo, al ghiaccio e alla tempesta. Non tutto è andato perduto, di quella temperie. Più che dalle loro poesie, dai loro romanzi, sono affascinato dalle storie di quelle vite, qui riprese in “Necropoli”. Storie di lotte, di ripicche, di invidie stupide e meschine, di riviste letterarie, di amori folli e impensabili, spesso finiti in tragedia. Una farsa tragica, dai tratti scuri e grotteschi. Perché è così interessante? Perché qui nasce l’uomo postmoderno – quello che siamo anche noi. Se Dovstoeskij, insieme a Kafka, ha fissato i tratti dell’uomo moderno, qui si è già oltre. L’uomo post-moderno non solo vive, ma anche “sa” di vivere, sa che tutto quanto ha fatto, e può fare, è già stato fatto da qualcuno. Tutto rientra in uno schema. La società è troppo potente, non può essere né stupita, né rovesciata. Alla fine si viene assorbiti in essa. Perciò non resta che recitare. Vivere “come se” fossimo autentici, come se i nostri amori, i nostri dolori, fossero accaduti la prima volta. Come se non dovessimo morire mai, o lasciare un segno. Come se la poesia contasse qualcosa, nel cuore di una metropoli.

 

La casa dei poeti non è più una metropoli, ma una necropoli. Un luogo oscuro e dimenticato, fatto di tombe e cunicoli, in cui si sentono antiche voci. Chi sono in realtà? Spettri, fantasmi, immagini evanescenti, subito perse nel buio. E’ successo davvero? O è stata un’illusione? Si ha l’impressione di un gioco di specchi, un labirinto, in cui è facile perdersi. Comunque non ha importanza. Un giorno anche noi finiremo laggiù. Allora incontreremo la Verità, che non ha bisogno di recitare. La vita invece ce lo chiede di continuo. Per questo a volte assomiglia una poesia. Il canto di un simbolista russo, subito perso nel tempo, mentre il mondo scivola in avanti. E i poeti continuano a guardarci.