Penso spesso a mia madre
L’immagine di lei, davanti allo specchio: l’incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, ed un vestito estivo dalla stravagante fantasia.
Bella ed inaccessibile.
Una eroina di Poe, tragicamente predestinata ad esser sepolta viva.
Un destino poi avverato.

Amava il buio e la penombra.
Parlava della sua morte, imminente e prematura.
Minaccia di suicidio.
Un giorno avrebbe aperto la finestra e spiccato il volo verso il suolo.
A noi, però, aveva vietato d’avvicinarci a finestre e balconi: aveva il terrore di una disgrazia.
Sono vissuta, da bambina, nell’ossessione di questa sua morte preannunciata.
Non stornava gli occhi dalle scene cruente: il sangue non la spaventava, piuttosto sembrava provarne fatale attrazione.
Le sue fiabe…ad incutere spavento per prevenire la nostra bambinesca spavalderia.
Amavo quei momenti di narrazione condivisi nel letto grande, con  la luce fioca dell’abatjour che illuminava ombre invisibili sulle pareti e, oltre la soglia, il rettangolo buio del corridoio.
Il mondo era in quella stanza e nei toni impazienti della sua voce, quando a causa delle nostre intemperanze, interrompeva il racconto minacciando di non terminarlo.
A volte la minaccia s’avverava.
Aspettavo, con ansia e sollievo, i momenti tragici della storia: non sempre c’era il lieto fine perché lei, a sua discrezione, liberamente l’interpretava.
Mai in nessun altro luogo, come in quella stanza, nel letto condiviso con lei e la nidiata dei miei fratelli, mi sono sentita così al sicuro.
Le ombre invisibili, che vigilavano sulle pareti, avrebbero impedito ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Perché mia madre, fata e strega, conosceva la formula magica per impedirne l’accesso.
E la formula era segretata nelle parole del racconto.

Mia madre era bella.
Poi l’alzheimer l’ha erosa un pezzettino per volta.
L’ha spolpata, come un boccone prelibato.
Si è cibato di lei.
Perché non fuggisse l’ha seppellita viva nel catafalco del suo corpo, per poterne disporre a suo piacimento.
Un catafalco senza finestre da cui spiccare il volo, sia pure verso il suolo.
L’avrei spinta io, nel vuoto, pur di liberarla dal mostro che la stava vivisezionando.

Un racconto in bianco/rosso/nero, quello della sua vita.
Protagonista di una favola dark.
Perché mia madre era dark.
Le sue ossessioni, così come le sue attrazioni, le sue contraddizioni e le sue enfasi, la sua malinconia congenita come il suo, a volte, troppo irruento protagonismo, sono tutte riconducibili alla poetica dark.
Tragica eroina di un racconto di Allan Poe.
Realistica interprete di un film di Tim Burton.

Perfettamente la ricordo composta nella bara: i capelli, nonostante gli anni e la malattia, ancora quasi tutti  scuri, le palpebre incollate e la bocca…troppo sottile ed allungata, non era la sua.
Lei aveva belle labbra.
Quella bocca non le apparteneva
Non era lei nella bara.
Purché tutto si concludesse in fretta ho finto che lo fosse.

Solo oggi, nel presente, sono riuscita a ricomporla in quella bara nel modo giusto: l’incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, e un abito estivo dalla stravagante fantasia.
Su questo fermo immagine l’ho adagiata nel suo letto matrimoniale, le ho posto uno specchio tra le mani, ho acceso l’abatjour e la luce fioca ha resuscitato le ombre invisibili, vigilanti sulle pareti della sua camera, ad impedire ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.

Mia madre ora riposa dove nessun mostro potrà ridestarla con un bacio ingannevole,  trascinarla nella sua tana buia e farne scempio.
Bella ed inaccessibile.
Inviolabile.
Finalmente al sicuro.