Per Petralia, in verità, l’argomento rimaneva aperto. Quella segnalazione anonima di un cadavere in fondo al dirupo del castello non poteva essere uno scherzo. Difficilmente un paesano di Acquamara si sarebbe messo a babbiare con morti e ammazzattine. Sia mai, che nel babbio il morto, per ridere, poi ci scappava per davvero.

Per chiudere (o molto più probabilmente per tenere aperta) la vicenda, Petralia non avrebbe dovuto fare altro che esaminare la scena dell’ipotetico ritrovamento dall’alto ossia in capo alla rocca ovvero da una delle terrazze del castello.

 

Uscì dalla trattoria sazio e soddisfatto di quella padellata di salsiccia e verdure di campo in aglio che aveva divorato assieme a mezzo chilo di pane e mezza caraffa di vino nostrano.

Sazio, soddisfatto ma allegramente stipato. Cosa che l’obbligò ad affrontare la scalinata che saliva fin sulla cima della rocca con le dovute cautele: passo lento e tre soste meditate. La prima al varco che segnava la fine del centro abitato, con la scusa di ammirare, con un principio di affanno, la possente verticalità della roccia; poi sulla panca di mezzo, sedendosi nella consapevolezza di coloro che proprio lì, per ristoro, la collocarono; e, infine, appena dentro, superato il possente cancello, sopraffatto dalla fatica e stordito da una forte percezione di antico e vivido, di un tempo tornato di colpo indietro. In quel regno di pietra su pietre conosciute una per una da Don Ciccio, il vecchio custode.

«Buonasera don Ciccio», il maresciallo lo trovò dormiente sulla poltrona del suo studio.

«Ehm… ehm», masticò don Ciccio.

«Don Ciccio, che fa dorme? Il maresciallo sono!» Petralia alzò volutamente il tono della sua voce.

Don Ciccio scattò, s’alzò dalla poltrona e sbattendo i tacchi: «Agli ordini maresciallo».

Petralia quasi si spaventò. «Don Ciccio che fa? Il saluto militare?»

L’uomo sgranò gli occhi, girò la testa incredulo, restò in silenzio qualche secondo, poi deluso: «Minchia lei è! Maresciallo mi ha interrotto nella più bella fottuta della mia vita, c’era Giosina che…».

«Mi scusi Don Ciccio, non volevo», si giustificò Petralia, «ma, chi sarebbe questa Giosina?»

«Una celestiale visione», don Ciccio s’animò, «due natiche in un culo setoso», le sue mani danzavano a mezz’aria, «un sentiero di morbide valli e due minne, due angurie agostane…».

«Don Ciccio», lo interruppe Petralia, «si calmi altrimenti mi rimane secco per l’eccitazione».

«’Nte corna», scongiurò con mignolo e indice tesi.

Petralia rise.

«Cosa è venuto a fare quassù?», domandò il vecchio.

«Una camminata digestiva e una bella chiacchierata con il cantore di Acquamara».

«E basta?», dubitò il vecchio.

Petralia gli raccontò della telefonata in caserma e del cadavere scomparso.

«Andiamo a fare una passeggiata al bastione delle prigioni… amunì», suggerì don Ciccio.

«Amunì», acconsentì volentieri Petralia.

 

S’incamminarono in un susseguirsi di ripide scale fino a raggiungere uno stretto pianoro scavato sulla roccia. Sul lato interno, il muro di fondamenta dove si aprivano i cunicoli che portavano alle celle, a giro una possente balaustra in pietra sul filo a strapiombo della rocca. Cinquanta metri sotto, il fondovalle controllato dalla torre di Byrsarone.

Petralia s’affacciò: niente di rilevante, la distesa di erba selvaggia s’allargava uniformemente fino al fondovalle. Un mare d’erba, fuorché nella pietraia che lambiva buona parte del perimetro della rocca. Nessuna traccia evidente di recente attività umana.

«Don Ciccio, non posso che dare ragione al mio appuntato Giacalone, un gran cornuto si sarà voluto divertire a modo suo», osservò deluso il maresciallo.

«Che vuole che le dica, lo sbirro lei è, ma è sicuro di aver osservato bene ogni cosa?»

Petralia s’aspettava quell’osservazione.

«Perché, lei ha visto qualcosa?», replicò compiaciuto.

Don Ciccio si gonfiò il petto, socchiudendo gli occhi come per sottolineare le parole che si apprestava a dire.

«Se potessero parlare queste pietre, venga, venga con me», il vecchio s’avviò, «le faccio vedere una cosa».

Procedettero lungo uno dei cunicoli, fino a fermarsi davanti l’ingresso di una delle vecchie celle. La poca luce riusciva a mala pena a illuminare l’interno. Entrarono.

«Riesce a vedere i segni sui muri?», domandò il vecchio al maresciallo, «proprio lì, su quella parete, sopra il giaciglio».

Petralia s’avvicinò a pochi centimetri dal muro, spalancò gli occhi e con il dito iniziò a sfiorare la parete come a ricalcare il disegno.

«Ha visto maresciallo? È un graffito di un povero disgraziato, un uomo recluso secoli fa dalla Santa o meglio scellerata Inquisizione».

Petralia fermò il dito, poi si girò verso Don Ciccio, «Minchia, un passaggio!», mormorò incredulo.