TANTE VITE QUANTE NE POSSIAMO VIVERE
Kalifa l’affabulatrice, la figlia esule della regina d’ Africa, l’infermiera senza diploma e divinatrice all’occorrenza, aveva da subito stregato gli isolani con la sua grazia esotica e l’eccentricità della sua chioma circense, luminosa come l’aureola sfolgorante sul capo della Madonna.
L’Isola l’accolse e lei ne divenne parte.
La vita vi scorreva monotona, cadenzata da abitudini secolari, radicate dalla posizione geografica  e dalle intemperanze del clima.
Una economia povera, derivata in maggior parte dal mare e dalle scarse ricchezze del suolo,  che inesorabilmente si stava traducendo nell’emigrazione dei più giovani verso il Continente.
Una terra destinata all’abbandono, fino alla notte in cui Kalifa, figlia povera dell’Africa, vi giunse per restare.
La differenza tra l’Isola, e l’angolo di Niger che l’aveva partorita, era essenzialmente nel paesaggio, ma identica, invece, nella qualità della miseria, perché anche qui le donne si coprivano il capo, i bambini giravano nudi e gli uomini lottavano per sopravvivere.
La vita attiva si svolgeva per lo più sul molo, punto d’attracco delle navi, ben poche per la verità, perché quel tratto di mare era solo meta per gli equipaggi più esperti che si fermavano per una sosta transitoria, il tempo necessario al commercio per poi riprendere il largo.
Approdavano le navi, per lo più mercantili diretti verso il Continente, ed imbarcazioni girovaghe costrette dagli imperativi del mare a gettare le ancore.
Un paio di locande, alquanto pretenziose, erano preposte all’accoglienza degli sbarcati; una piccola chiesa marina, dove il sagrestano aveva il compito di scrutare l’orizzonte e, quando una nave si accingeva all’ancoraggio, di suonare a festa le campane come segno di benvenuto; un bazar, con l’esposizione delle reliquie ritrovate dei naufragi, ed un vasto assortimento di conchiglie dorate, coralli purpurei e fragili fossili, di cui i collezionisti facevano incetta; un ambulatorio medico, con annessa una modesta farmacia, completava il tutto.
La piccola comunità dell’Isola, all’arrivo delle navi, si riversava sul molo, le donne avvolte nei loro scialli, le ragazze da marito con gli abiti più belli, e le anziane che sorvegliavano le une e le altre, mentre gli uomini barattavano merci e rifornivano le cambuse delle imbarcazioni con gli stentati raccolti della terra e del mare.
La prima volta che Kalifa discese al porto fu per ordinare al traghetto, incaricato degli approvvigionamenti, la tintura per i capelli.

Le suore, per candore religioso, e per democrazia, chiamavano tutte le bambine Maria.
Il secondo nome, invece, era quello dell’individualità.
Alla Missione vigevano regole imposte per necessità e disciplina, e tutti avevano un compito d’assolvere.
Il suo era quello d’infermiera senza diploma, come diceva il Dottore.
Un talento innato, una mano ferma ed una volontà decisa che, in quell’angolo di giungla, stava diventando indispensabile alla comunità, ma non alla realizzazione di se stessa.
Per questo, il Dottore, l’aveva convinta a quel viaggio clandestino: «Esplora il mondo, Kalifa, vale la pena di essere visto e di vivere tante vite quante ne possiamo immaginare. Qui ci saranno altre buone infermiere, la pratica a questo serve, ma un talento vero va riconosciuto ed affermato, e tu ne hai tanti, molti più di quelli che qui ti è dato sperimentare.»
Il Dottore l’aveva spronata ad intraprendere quel viaggio che l’avrebbe condotta verso la conoscenza di se stessa, e quella del mondo che si espandeva dietro la cortina sontuosa degli arbusti dei tamarischi e dei karitè.
Kalifa l’ascoltava, sedotta dall’eco di risacca delle onde di quel mare inesplorato che s’infrangeva contro le mura della Missione, dove anche  l’harmattan odorava di sale.
Tante vite quante ne possiamo vivere, le aveva suggerito Il Dottore, quando ancora lei nulla sapeva dei destini di Kalifa-l’affabulatrice; Kalifa-figlia-esule-della-regina-d’Africa; Kalifa-infermiera-senza-diploma; Kalifa-divinatrice-all’occorrenza.
«Imparerò  a nuotare, Dottore, e la tua Isola sarà il primo porto in cui io approderò.»