L’ORO NEI CAPELLI
Kalifa spalancò la casa al vento salino per liberare i fantasmi dei suoi antichi abitanti, i cui lamenti salivano lungo le tubature per soffocare nelle muffe dilaganti. Poi la tinteggiò con i colori della frutta.
Era attratta dalle sfumature arroganti e dai contrasti stridenti, come il biondo sfolgorante dei capelli ed il colore notturno della sua pelle.
Come guardiano della casa aveva adottato un gallo arruffato ed orbo di un occhio, che vigilava, spavaldo ed aggressivo, come un vecchio pirata sulla tolda, dividendosi gli spazi con un uccello delle tempeste che, sulla scia della nave su cui Kalifa aveva viaggiato da clandestina, s’era invaghito di lei e l’aveva seguita fino all’Isola, dove aveva rinnegato la sua indole errabonda, limitandosi a far la spola tra la spiaggia e la casa dove poteva liberamente intrufolarsi, come un pipistrello, in tutte le stanze.
Kalifa aveva costruito un sentiero marino di ciottoli, conchiglie e pietruzze iridescenti che, da un gomito di spiaggia, s’inerpicava verso la sua casa, e rinverdito il giardino che anche negli inverni più cupi avrebbe rispleso come un faro, con le fiammelle degli stoppini intrappolate dentro prismi di vetro per illuminare l’oscurità con la fantasmagoria di stelle illusorie, a rischiarare le buie notti dei fantasmi dei naufraghi e quelle degli spiriti degli abitanti della casa che lei aveva sfrattato, senza troppe cerimonie, per prenderne possesso
In futuro, quelle luminarie, sarebbero diventate un riferimento stabile su cui organizzare la rotta per le imbarcazioni  in navigazione notturna.
All’inizio gli isolani avevano seguito a distanza, con curiosità e discrezione, il lavorio infaticabile della nuova arrivata, rifornendola di cibo e generi di prima necessità che lei, grata, aveva accettato come un dono che avrebbe presto contraccambiato, perché alla Missione questo le era stato insegnato: accettare sempre ciò che spontaneamente ci viene dato affinché un giorno si possa, con lo stesso spirito. Così, Kalifa, accettava col sorriso quei doni spontanei, contraccambiando con le immaginifiche rielaborazioni delle storie dei Santi come le erano state narrate dalle suore.

Un giorno, alla missione, era accaduto che il corto velo, malamente annodato, che avvolgeva il capo di suor Nazzarena, era scivolato via sciogliendo la treccia bionda dei suoi capelli: Kalifa ne fu abbagliata.
Fino a quel momento aveva immaginato che i capelli delle suore fossero neri come i suoi, o castani, come quello delle immaginette della Madonna, oppure grigi o bianchi, secondo l’età, e mai avrebbe supposto che un velo potesse celare una meraviglia simile.
Avere i capelli di quel colore diventò la sua ossessione.
Troppo timida per chiedere il segreto di quell’abbagliante colore, sperimentò nel laboratorio del Dottore intrugli a base di fiori e di spezie di colore giallo che diligentemente si spalmava con cura certosina sui capelli, un rito interminabile, vista l’abbondanza delle sue chiome, quanto inutile, dal momento che nessuna sostanza, e nessuna formula, sembrava avesse il potere di mutarne il colore.
Quel miracolo lo compì, per lei,  proprio il Dottore, che aveva notato il  furtivo andirivieni, nel suo laboratorio, della sua migliore allieva.
Quando gliene aveva chiesto spiegazione, Kalifa, tra le lacrime, aveva ammesso la sua colpa e  poi confidato la sua aspirazione.
Il Dottore, che ben conosceva le donne, aveva capito che nessuna ragionevolezza avrebbe scalfito la determinazione di quella ragazza, così decise di aiutarla rivelandole i segreti del perossido d’idrogeno, usato in cosmesi come base  per la preparazione delle tinture dei capelli.
Le promise di farsene inviare un flacone dall’Italia ma avrebbero prima dovuto parlarne alle suore, le quali, sicuramente, avrebbero cercato di dissuaderla.
Stava a lei convincerle.
Questa richiesta, fuori dall’ordinario, creò trambusto tra le religiose che si trovarono divise in due fazioni: quelle propense a perorare la causa di Kalifa, giustificandola come una innocente vanità adolescenziale, e le altre che in quella richiesta ci ravvisavano una bizzarria con la quale avrebbe, invece, deturpato la sua bellezza.
Pareri di donne, quindi, e non di religiose.
Suor Nazzarena, che seppur incolpevole aveva causato un tale putiferio, tentò di parlare con Kalifa, di convincerla dell’insensatezza della sua richiesta, che il biondo simulato sarebbe stato solo temporaneo perché i suoi capelli nella ricrescita sarebbero tornati di nuovo ad esser neri, essendo quello il colore determinato dal suo codice genetico.
Kalifa, all’apparenza, era apparsa rassegnata,  ma aveva iniziato a tagliuzzarsi i capelli e nascondere lo scempio sotto un turbante.
Alla fine le missionarie cedettero a quel suo aspetto derelitto di passerotto implume; all’aria malinconica, e sempre più distaccata, con cui s’accingeva a compiere i suoi compiti usuali; allo smagrimento causato dall’inappetenza  e dall’insonnia. E alla nenia che il Dottore andava loro ripetendo di non potersi permettere di perdere la sua assistente più brava.
Così, in aggiunta alla lista di cibo e medicine, venne inoltrata la richiesta insolita di un paio di flaconi di tintura per capelli.