In quel giorno di febbraio il cielo era azzurro e luminoso, le cime delle montagne innevate brillavano come diamanti, piccole nubi si rincorrevano come agnelli senza un gregge.
Il silenzio ovattato dei monti lasciava udire il suono del vento gelido che sollevava a tratti la neve leggera.
Era stanca Maria, per due ore aveva camminato sul ripido sentiero di montagna e la aspettava ancora un’ora di salita con la neve alle ginocchia.
Il viso era arrossato dal freddo, non sentiva più le braccia e pareva che mille spilli roventi le trafiggessero mani e piedi.
Difficile liberare il pensiero: la sua mente, il suo corpo, erano concentrati su un’unica azione, fare il passo successivo.
Esausta, posò la pesante gerla colma di cibo e armi per riposare.

I suoi pensieri volarono a casa, al pranzo per i suoi quattro piccoli che doveva preparare, alle mucche dalle mammelle gonfie che attendevano di essere munte, alla legna da portare dentro per mantenere acceso il camino, perché ora che Guido non c’era spettava a lei occuparsi di ogni cosa.
La sera gli occhi le si chiudevano dalla stanchezza mentre alla fioca luce del lume rammendava gli abiti sgualciti dei bambini, così che alla mattina li potessero indossare lindi e senza strappi, perché pur nella miseria non perdessero mai la dignità.
Il ricordo di quella sera di maggio era ancora vivido nella sua mente.
Dopo aver messo a letto i bambini, lo aveva raggiunto sotto il piccolo pergolato di uva spina davanti a casa, la primavera era sbocciata presto quell’anno e l’aria della sera odorava di fiori ed erba. Le lucciole si accendevano rincorrendosi nel buio del piccolo bosco, quasi fossero riflessi delle stelle che trapuntavano il cielo.
Era quello l’unico momento solo loro, quel prezioso frammento di tempo prima di andarsi a coricare.
Guido le prese le mani: «Maria ho pensato a lungo, non posso rimanere qui, devo andare a combattere per un futuro migliore da dare a te e ai nostri figli».
Maria impallidì: «Ma proprio tu?».
Lui la guardò con dolcezza «Alcide e Rino hanno già imbracciato le armi, e altri uomini dei paesi vicini stanno combattendo per noi».
Lei chinò il capo: «Ma noi come faremo senza di te?» disse, con un filo di voce.
Guido le prese il viso tra le mani: «Tesoro, tu sei una donna forte, io lo so, abbiamo superato tante difficoltà in questi anni e supereremo anche questa, insieme come abbiamo sempre fatto».
Maria alzò lo sguardo, strinse forte le sue mani e i loro occhi si parlarono nel silenzio.
Rimasero lì, abbracciati, a guardare il cielo e respirare il profumo dei boschi.

All’alba Maria si alzò, scese nella piccola cucina e dopo aver acceso il fuoco mise sul tavolo una caciotta, due pagnotte del loro pane, una bottiglia di vino rosso e avvolse tutto con cura nello strofinaccio.
Guido indossò la giacca pesante e prese lo zaino, si affacciò nella stanza dei figli che ignari dormivano il sonno dei bambini e con lo sguardo umido e il cuore pesante pose le sue labbra sulla fronte di ognuno e li baciò delicatamente.
Scese in cucina e con un abbraccio carico di promesse si salutarono.
Maria stette a guardarlo sulla soglia di casa finché la sua figura si fece piccola e scomparve nel bosco.
Allora andò nella stalla e dopo aver munto le mucche preparò la colazione per i bambini.
«Mamma dov’è il papà?» chiese Giacomo, non vedendo il padre a tavola per la colazione.Maria con un sorriso rassicurante rispose: «È andato a lavorare lontano, starà via per un po’. Ha detto di salutarvi e si è raccomandato di fare i bravi».

Mentre tornava a casa dopo aver accompagnato i bambini a scuola incontrò Mafalda, la moglie di Rino. Mafalda la guardò negli occhi. «Lo so», disse.
Le donne si abbracciarono, Mafalda le sussurrò all’orecchio: «Dobbiamo essere forti Maria, per i nostri figli e i nostri uomini».
«Sono preoccupata, come faranno a sopravvivere sulle montagne rinchiusi in fredde trincee a due passi dal confine austriaco? Cosa mangeranno, cosa avranno per combattere? Ci sono solo mulattiere e sentieri impervi per raggiungerli».
Mafalda si guardò rapidamente intorno.

«Il Comando Logistico della Zona Carnia e il Genio hanno chiesto aiuto a chi non è in trincea, così che gli uomini possano rimanere a combattere» sussurrò.
«Qui siamo rimasti solo donne, bambini e vecchi» disse Maria, spaventata.
«Per questo molte di noi hanno pensato di dare una mano. Pur con sacrificio noi donne possiamo farlo, dobbiamo farlo» rispose con voce determinata Mafalda.
Maria, sbigottita e confusa, sentì per un attimo la terra venirle meno sotto i piedi, poi ripensò a quando aveva visto la figura di Guido, sempre più piccola, scomparire nel bosco, ai bambini che chiedevano del loro padre. Fu allora che ebbe la certezza: doveva farlo. L’amore è un’energia potente che dà la forza di fare cose di cui non ci si ritiene capaci con inspiegabile naturalezza.
Con decisione disse a Mafalda: «Come devo fare?».
Fu così che Mafalda le spiegò che era stato costituito un corpo di ausiliarie, composto di civili di tutte le età, che eseguiva il trasporto di materiali a spalla, da fondo valle, dove si trovavano i magazzini e i depositi militari, fino in cima alle Alpi, per permettere alle forniture di raggiungere le prime linee.
Le disse che l’avrebbe accompagnata lei stessa al magazzino, che le avrebbero dato un braccialetto rosso dove c’era scritto il numero dell’unità militare d’assegnazione e un taccuino su cui erano annotati i materiali trasportati e i viaggi giornalieri, poi le avrebbero riempito la gerla con tutto il necessario e lei doveva semplicemente portarla in trincea.

Erano trascorsi molti mesi da quel giorno, le giornate di Maria erano cambiate, si alzava all’alba e caricata sulle spalle la gerla, che a volte pesava più di trenta chili, partiva per la trincea per poi ritornare a casa e svolgere le incombenze domestiche.
Gli anni trascorsi con il suo Guido accanto le sembravano una vita lontana, quasi fosse un sogno per scaldarle il cuore.

Una gelida folata di vento la fece trasalire, il freddo era così pungente che si sentiva un tutt’uno con la neve. Si alzò lentamente, rimise la gerla sulle spalle e riprese la marcia. Le gambe pesanti affondavano nella neve ma non ascoltava la fatica, tra non molto avrebbe sentito il vociare nelle trincee cercando di riconoscere quella di Guido.

 Ta-pum! Uno sparo ruppe il silenzio, e Maria nulla più udì quel giorno.
Il suo corpo, come un fiore rosso reciso, segnava nella neve il suo passaggio.

 

Quando viene dichiarata e combattuta una guerra spesso si parla degli eserciti nei campi di battaglia, dei comandanti e degli uomini che si distinguono in prima linea. Molto spesso invece si dimentica la popolazione civile,  in particolare le donne, che  essendo lontane dal fronte e non arruolabili, passano in secondo piano. Invece la guerra è un avvenimento totalizzante che coinvolge l’intera popolazione.


Ma ci sono casi in cui queste figure sono diventate protagoniste e vengono quindi ricordate anche a distanza di molti anni. È il caso delle Portatrici Carniche,  donne che nel corso della prima guerra mondiale
 operarono lungo il fronte della Carnia, trasportando con le loro gerle rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane, dove combattevano i loro uomini nei reparti alpini. Queste donne percorrevano anche più di 1000 metri di dislivello portando sulle spalle gerle di 30–40 kg.

 Dal 1992 il Comune di Paluzza ha posto nella piazza di Timau un monumento dedicato alle portatrici e in particolare a Maria Plonzer Mentil, la donna uccisa da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916.