Gli indici del quadrante segnavano le undici e quarantotto e a mezzogiorno sarebbe iniziato il rito, il solito evento di ogni settimana.
C’erano tutte e tre, puntuali, a quell’ora sul pontile, affacciate alla balaustra bianca un po’ bollata dall’aria salmastra.
Ciò che le loro orecchie accoglievano era un dono impacchettato da ricevere ad occhi chiusi e da scartare senza fretta – non come si fa di solito – tant’era l’effetto del suo manifestarsi che mai sbiadiva.
Dopo un bel respiro li riaprivano, gli occhi, per tuffarsi nello scorrere delle immagini e sentirsi parti di un quadro vivente.
Si reputavano fortunate loro, a essere nate in un posto così generoso di scenari e movimenti suggestivi, e ancor più a viverci, lì.
Amavano incamminarsi per tempo e mangiare ogni loro passo come una bozza di pane appena sfornata, assaporandone gusto e fragranza.
Tanto lì dovevano arrivare, dove da bambine ce le accompagnavano le madri, le une attaccate alle altre in quel tenero legame di mani, la piccola destra nell’adulto riparo di quella sinistra, ricamate dal filo imperituro dell’amore.

ll loro ‘touch’, come lo chiamavano distinguendolo da tutti gli altri incontri, era quel tempo di un paio d’ore poco più del giovedì, dedicato a essere vissuto in ogni sua sequenza.
E con l’esercizio settimanale avevano imparato a dilatarne il trascorrere senza pensarci, assaporando semplicemente tutto coi sensi.
Quelle tre bocche ridenti che si davano appuntamento alla fine del molo appartenevano a Elena, Cecilia e Chiara: nonna, figlia, nipote.
La più longeva Elena, con capelli d’argento e occhi azzurrissimi, era conosciuta come ‘l’ascoltatrice’ e anche se la sua figura era minuta non passava inosservata perché era bella come poche. Era la prima ad arrivare, amava accogliere le altre con un abbraccio.
Sua figlia Cecilia, vent’anni meno della madre, vent’anni più della figlia, non le assomigliava né nelle forme né nei tratti. Era semplice e aggraziata sempre, anche con un paio di jeans e la camicia infilata dentro, tanto che faceva girare tutti gli occhi, ammirati dall’allure seducente delle sue lunghe e belle gambe.
Per la comunità era ‘la fata’.
Anche a lei piaceva essere in anticipo, giusto il tempo di poter sorprendere sua madre alle spalle e abbracciarla per prima, se ci riusciva.
E quando arrivava Chiara ci se ne accorgeva prima di intravederla,
la sua voce deliziava da lontano soffiando canti a favore del vento che anticipava la sua comparsa.
Quando si parlava di lei, la si appellava come “la musicante”.
Insieme erano ancora più intense ed era come se la pecularità di ognuna autenticasse e allevasse quella delle altre, ricevendo e donando vigoria.

Quello che accadeva era un fenomeno visibile a chiunque fosse loro prossimo e quando uno di questi raccontava l’episodio a chi era stato altrove destava curiosità e attesa fino all’abboccamento successivo, al quale si faceva di tutto per non mancare.

Per il trio aveva un significato più profondo, il loro convegno.
Era necessario, alla risoluzione di ogni caso, celebrare il fatto, altrimenti non ne avrebbero soddisfatti altri.
Le prescelte rinnovavano così il dono che era stato a ognuna riservato e si iniziavano nuovamente.

Tempo addietro aveva alitato la cura in una casa sul mare.
Dopo una manciata di lustri in un’altra lì vicino, con la terrazza di conchiglie.
Passato lo stesso tempo in un’altra ancora sulla spiaggia, coi delfini campanelli sulla porta.

Siffatta cosa avvenne, e sbocciarono le rose anche sugli specchi.

(Foto mia)