REBECCA, LA MUSA
Quella sera stessa, convocate entrambe le figlie nel suo studio, senza avvalersi di nessuna metafora e con tono inappellabile, le aveva edotte sul suo disegno: a Rebecca l’onore del matrimonio, a Gemma l’onere della madre. Scelta basata sulle qualità individuali e non su una preferenza affettiva, aveva precisato, che Rebecca, più disinvolta e intraprendente, s’era rivelata la più adatta a ricoprire il ruolo di moglie di un artista geniale ma introverso, e di cui lei sarebbe divenuta l’alter ego in quanto dotata di un carattere volitivo e molto risoluto, speculare a quello del futuro marito, meno brillante e più vulnerabile.
Poiché tale era Giandomenico Messinese, il giovane in questione, artista geniale ma dalla personalità opaca e inibito da una timidezza endemica, fattori per i quali, se lasciato solo a stesso, sarebbe stato destinato a rimanere incompreso. Ed incompiuto.
Stava offrendo, alla figlia minore, un matrimonio di prestigio e la certezza di entrare nell’olimpo delle muse.
Gemma, invece, durante il periodo del fidanzamento della sorella avrebbe dovuto continuare ad occuparsi della madre, controllarla e prevenirne le bizzarrie, soprattutto quando fosse stata ritenuta necessaria la sua presenza in pubblico. Presenza che sarebbe stata limitata solo alle occasioni ineludibili.
Aveva perfino considerato l’ipotesi per loro due di un soggiorno all’estero, ma che non era possibile, al momento, mettere in pratica senza destare domande lecite ma inopportune.
Un compito a termine, questo di Gemma, ma di vitale importanza, che s’aspettava venisse compiuto con intelligenza e diligenza, cosicché lo scandalo di quel giorno non si sarebbe mai più dovuto ripetere.
Avrebbe, da quel momento in poi, ritenuto Gemma responsabile di qualsiasi spiacevole accadimento riguardante la madre.

Entrambe lo avevano ascoltato in silenzio fino a quel punto finale che non ammetteva replica né dissenso, e col quale Concetto Scalavino riteneva conclusa quella sua informativa e s’apprestava a congedar le figlie con l’augurio della buonanotte, ritenendo le carte scoperte e i giochi conclusi, certo d’aver vinto, anche troppo facilmente, quella partita di cui ora doveva solo riscuotere la posta, quando Rebecca, con voce ferma, aveva detto: ma io non intendo sposarmi.
Il giocatore Scalavino aveva avuto dapprima un sussulto e poi aveva battuto un pugno sul tavolo facendo crollare quel suo castello di carte che s’era ingegnato ad innalzare e che, per un momento, aveva ritenuto inespugnabile.

– Non mi sposo, e non capisco su che basi abbiate potuto fare questi vostri calcoli senza chiedere la mia opinione. Il matrimonio non rientra nelle mie ipotesi di futuro, piuttosto scalerei il monte Olimpo per mio piacere personale, in abiti comodi e a me più congeniali, anziché in quelli teatrali di una musa. Il mio compito, dunque, secondo voi, sarebbe quello di spianare la strada ad un marito geniale ma incapace di riscuoter simpatie, mettermi al servizio delle sue necessità e di quelle della sua arte. E a quelle del vostro smisurato ego. Non mi sposo, prendetene atto e mettetevi il cuore in pace. Che padre siete a pretendere d’imporre ad una figlia il ruolo di moglie e all’altra quello d’infermiera, senza tener conto dei nostri sentimenti? così come di quelli della mamma che voi avete contribuito, col vostro cinismo esistenziale, a ridurre alla follia.-

– Non ti permetto di parlarmi in questi termini! La mia autorità…-

– La vostra autorità non vi dà il diritto di decidere della nostra vita.-

– Sei mia figlia e dipendi da me, in tutto e per tutto. Non dimenticarlo!-

– Dipendo da me stessa e da voi meno che da chiunque altro. Non farò la fine delle mie sorelle o, peggio ancora, di mia madre. Cosa potete farmi? Diseredarmi? Accomodatevi! Picchiarmi? Vi consiglio di non farlo. E non perdete neppure tempo a convincermi perché la mia decisione l’ho presa nel momento stesso in cui sono stata partorita. No, non c’è nulla che potete fare per piegarmi al vostro volere. Fatevene una ragione, papà!-

– Fatevene una ragione, papà. –
Glielo aveva di nuovo sussurrato all’orecchio dandogli il bacio della buonanotte.
Un bacio che bruciava come uno schiaffo.


GEMMA, LA GUARDIANA
Gemma, invece, non aveva proferito parola, né mosso un passo né fatto un gesto: impietrita, aveva seguito con lo sguardo Rebecca lasciare la stanza e ora che lei se ne era andata quel suo sguardo cercava, inquieto e smarrito, un punto su cui soffermarsi, consapevolmente evitando di guardare verso il padre che, con le labbra serrate e i pugni stretti, tremava di rabbia a stento repressa.
Di quell’ira non esplosa la stanza era satura e lei l’aveva respirata tutta in attesa della deflagrazione che però non era avvenuta nemmeno quando, d’istinto, s’era sottratta al tentativo di una carezza.
Un insulto quella carezza: un subdolo abboccamento a stabilire un’accordo, un’alleanza segreta e, forse, una redistribuzione dei ruoli.
Raggelata e stordita Gemma s’era rintanata nel profondo recondito di se stessa, lontana dalla realtà devastante di quel momento, preda di un’indicibile stupore per quell’umiliazione appena subita, lottando contro le lacrime che orgogliosamente ricacciava indietro.

Le ragazze Scalavino non erano avvezze alle lacrime che pur sono, secondo l’occasione, sintomo di gioia o di dolore, non avendo avuto nella loro ancor giovane, e troppo solitaria vita, vere occasioni per sperimentare la pienezza dei due opposti, ragion per cui se necessariamente s’erano fatte le ossa all’indifferenza affettiva di certo erano delle sprovvedute riguardo la valutazione soggettiva di queste due nuove materie, (nello specifico, il dolore) scoprendo, all’improvviso, la brutalità dei sentimenti e l’impatto emotivo. E le conseguenti reazioni.
Rebecca s’era opposta al progetto del padre con uno stupefacente, provocatorio, savoir fair: l’equivalente di uno sputo in faccia lanciato con eleganza ed ottima mira.
Gemma, invece, era rimasta stordita, in balia di sensazioni sconosciute e dolorose, dove su tutte, però, predominava quella dell’umiliazione infertale da quel padre che s’era dimostrato affettuoso solo per opportunismo.
Totalmente estranea all’ipotesi di un suo ruolo in quel progetto nefando, mai avrebbe accettato di esserne asservita soprattutto in qualità di vittima sacrificale. E consenziente.
Iniziava, però, a penetrare i sottili meccanismi di quella manipolazione basata sull’inganno, cinicamente messa in atto da quel padre che, se con una mano elargiva carezze, nell’altra aveva pronto il guinzaglio.

Concetto Scalavino, anche se sconcertato dall’atteggiamento delle figlie, era fermamente deciso a realizzare il suo progetto, riconducendo tutto ad una mera questione di metodo, sicuro che nelle sue figlie il buon senso, adeguatamente sollecitato dal suo pugno di ferro, alla fine sarebbe prevalso.
S’era imposto di mantenere la calma, che le redini a guidar la pariglia ribelle erano salde nelle sue mani, cosicché imporre loro la sella era solo questione di tempo, ma alla fine ci sarebbe riuscito, che mai nessun puledro, per quanto recalcitrante fosse, l’aveva mai avuta vinta su un fantino munito di briglie e di speroni.
E comunque informandole sulle sue intenzioni un primo passo lo aveva compiuto.

Quella sera, attraversando il corridoio che conduceva alle camere da letto aveva notato che l’uscio della stanza di Rebecca, dove la luce era già spenta, era ostruito dal cane di casa, apparentemente addormentato, ma che al suo passaggio aveva digrignato i denti ed emesso un ringhio sordo.
Anche dalla porta socchiusa della camera di Gemma non filtrava alcuna luce e, sbirciando all’interno, Concetto Scalavino aveva constatato esser vuota.
Illuminata, invece, era la stanza della moglie che farneticava a voce alta.
Ma non era sola: la voce di Gemma, paziente e decisa, si sovrapponeva alla sua a rassicurarla che mai avrebbe permesso all’uomo nero di salire in cielo e spegnere le stelle.
Scalavino a quella scena aveva sorriso, congratulandosi con se stesso per aver favorito quel legame in cui Gemma, comunque, si dimostrava coinvolta.

Anche Mimì Messinese, dal canto suo, s’era predisposto quella stessa sera a dar la notizia ai suoi dell’ipotesi di un matrimonio tra Giandomenico e Rebecca, presentandosi a casa con un enorme vassoio di dolci, nonostante fosse giovedì, in anticipo di ben due giorni su quello che costituiva da sempre il rito celebrativo della domenica.
Quell’innocente trasgressione aveva causato un allegro trambusto, scatenato interrogativi e supposizioni circa l’avvenimento da festeggiare, e ai quali lui, insolitamente loquace, si divertiva a fornire elementi fuorvianti, immaginifici, così da poter giungere al termine della cena con la sorpresa ancora intatta, che avrebbe rivelato al momento del dolce e prima del bicchiere di Marsala.

– La novità riguarda te, Giandomenico, e la possibilità di matrimonio con la figlia minore del nostro fornitore per il legname, Concetto Scalavino. La ragazza è molto bella ed è un buon partito, e il tuo futuro suocero ha davvero grande stima di te. Hai davanti un destino luminoso, ma non sei ancora affermato, e le incognite nel campo dell’arte, soprattutto in quello dell’ebanisteria, sono troppe: lo sappiamo bene noi che abbiamo visto nella nostra famiglia così tante ascese e così tante cadute. L’ingente dote matrimoniale della tua futura moglie ti garantirebbe quella tranquillità esistenziale con cui tu potrai approfondire i tuoi studi e maturare il tuo talento, preservandoti da ogni compromesso e rendendoti libero nelle tue scelte. –

Detto questo, Mimì Messinese s’era sentito d’aver espletato, nel migliore dei modi, un compito alquanto difficile, perché con quel figlio, che pure tanto gli somigliava nel carattere, non vantava alcuna intimità. Ma si capivano allo sguardo e si muovevano all’unisono, e questo aveva cementato il loro rapporto anche senza il collante della confidenza.

Si sentiva soddisfatto di questo suo discorso a braccio, privo di preamboli e virgolettati, che dai suoi era stato accolto all’inizio con un  silenzioso stupore e poi con esplosioni di gioia nei riguardi di Giandomenico e della sconosciuta Rebecca.