L’alba si era levata grigia nella mattina gelida. La luce s’intrufolava furtiva tra le sbarre, inesorabile. Quante volte nei mesi passati mi ero immaginato questo momento!

La ragione fa di questi scherzi, ti mostra mille e mille volte le cose che più temi, fino a centellinarle come una sottile tortura che ti scava dentro, instancabile. Così avevo pensato questa mattina, io che pregavo il buio di non abbandonarmi, di regalarmi ancora qualche ora, qualche minuto, qualche istante di vita.
E invece sono qui che osservo distaccato l’incedere del giorno, come se la cosa non mi riguardasse, come se là fuori, nel cortile, sulle pietre grezze, contro quel muro incrostato che ho visto per tutti questi mesi, come se lì non mi attendesse la morte.

Credo lo stesso avvenga per i miei compagni, e comunque ognuno è perso nei propri pensieri, forse alcuni hanno una famiglia mentre io ho soltanto un fratello, MIchail, da salutare.
Poco fa è passato il prete, e io l’ho rifiutato. Solo Dio, il buon Dio, sa quanto confidi in lui, ma quel pretino è venuto a chiedermi dei miei peccati, e io peccati non ne ho commessi, non è per i miei peccati che sto per venire ucciso. Lui è andato oltre, il viso smunto, si vedeva che era soverchiato da quell’impegno inumano, ma qualcuno si è confidato con lui e questo gli ha dato coraggio.

Quello che invoco è un attacco della mia malattia, un attacco, per poter assaporare un’ultima volta quell’istante di ineffabile felicità che mi travolge un secondo prima della crisi, e forse anche l’oblio che ne consegue dopo, ma so che mi verrà negato. Com’è debole l’animo umano! Eppure, non dobbiamo tutti prima o dopo morire?

Non è stato nel cortile. Ci hanno caricato su dei carri e portati in piazza Semenovskij, in catene come animali. Lì ci hanno fatto scendere e letto ancora una volta la sentenza, poi ci hanno dato da baciare la croce e hanno spezzato sopra le nostre teste gli spadini. Dio, quanto sono stupide, quanto sono lontane da me tutte queste cerimonie! Stavo per morire, questo contava. Vorrei dire che pensavo all’impatto delle pallottole contro il mio petto, al dolore, ma racconterei una bugia. Non so cosa pensavo, credo che in quei momenti la mente si svuoti, forse per sperimentare la totale assenza della morte.

Ricordo però che tirava un vento gelido dal fiume, e che sono rabbrividito quando ci hanno fatto spogliare per indossare la bianca tunica dei condannati. Poi ci hanno legati ai pali, tre per palo, e io ero nel secondo terzetto, il terzo della fila. A quindici passi da noi i soldati avevano i fucili puntati, i tamburi rullavano e il loro suono adesso mi sembrava un sordo tuonare. L’ufficiale aveva alzato la sciabola e si apprestava a dare l’ordine. Chiusi gli occhi.
I tamburi continuavano a rullare, continuarono per un tempo infinito. Perché, pensai, perché questa crudeltà? Perché non farla finita?

Riaprii gli occhi. I soldati avevano abbassato i fucili, l’ufficiale aveva un foglio in mano e stava leggendo qualcosa. Non riuscivo a capire le parole, ma vidi qualcuno vicino a me piangere, qualche altro accasciarsi per quanto lo consentivano i legacci.
«Siamo vivi, Fëdor, vivi!» mi diceva Vladimir, legato al mio fianco.
Io continuavo a non capire, guardavo l’ufficiale, i soldati, lui, il cielo plumbeo.
«Ci hanno graziati, Dio mio! Ci hanno graziati!» ripeté il mio compagno.
Lentamente la consapevolezza si fece strada dentro di me, e vidi il ghigno sul volto del graduato, che evidentemente sapeva, e lo sguardo smarrito degli altri condannati. Chi pregava, chi piangeva. Io ricordo soltanto che avevo freddo.

Ci slegarono e ci riportarono alla fortezza dei Santi Pietro e Paolo, e da lì nei campi di lavoro, ma questa è un’altra storia. In piazza Semenovskij il 22 dicembre 1849 il giocatore dissoluto, il nobile povero, l’ingenuo sovversivo è morto. Quel giorno è nato Fëdor Dostoevskij, lo scrittore.

«L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi, in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone, e accostatevi con la miccia: chi sa! penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte, e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un tal colpo senza perdere la ragione? A che dunque questa pena mostruosa e inutile? Un solo uomo potrebbe chiarire il punto; un uomo cui abbiamo letto la sentenza di morte, e poi detto: “Va ti è fatta la grazia!”. Di un tale strazio anche Cristo ha parlato… No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può nè deve esser lecito applicarla all’uomo”. (L’idiota)