È sul finire degli anni ’70 che ha iniziato a prendere personalità la mia biblioteca. Nel luglio del 1978 lavoravo a Torino e m’ero, da pochi mesi, separato dalla mia prima moglie. Momento complicato, com’è facile immaginare, ma anche ricco di stimoli e di esperienze. Cambia tutto nella mia vita: amicizie, amori, frequentazioni. E per il mio trentesimo compleanno un gruppo di amici mi regala Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, in edizione rigorosamente economica (erano anni di contestazione).

Avevo iniziato a comprare libri; non molti e nemmeno ricordo tanto quali. In quel particolare momento psicologico l’arrivo nella mia vita dello scrittore colombiano fu una sorta di “illuminazione sulla via di Damasco”. Nel senso che fu come se si fosse aperta una finestra su un mondo particolare e sconosciuto.

Ricordo ancora la primissima sensazione quando, dopo poche pagine, d’improvviso il narratore, col massimo della naturalezza, comincia a far “volare tappeti”… quello che più mi colpi fu proprio questo raccontarlo come fosse la cosa più normale e scontata del mondo. Nel mio di mondo, i tappeti non volavano ed, eventualmente, solo quando si raccontavano favole. Ed io, a trent’anni e con un matrimonio fallito alle spalle ed una vita tutta da reinventare, alle favole non credevo più.

Però la favola della famiglia Buendia, con le sue generazioni di colonnelli in cui i figli si chiamano come i nonni, nell’atmosfera surreale di Macondo e con le stupende figure femminili a creare una girandola fantasmagorica di emozioni, era ed è qualcosa che va ben al di là dei tappeti volanti. Una sorta di sogno allucinatorio in cui si viene trascinati e dove poco conta tenere il conto delle generazioni: sono le passioni invincibili dei personaggi che alla fine si fondono in un finale dove la dimensione tempo si annulla e tutto diviene un vortice di ricordi e di vissuto.

Una delle sensazioni che a suo tempo provai da quella lettura fu che conteneva materiale per almeno una decina di storie che avrebbero potuto essere un romanzo loro volta. E che il suo autore avesse dato tutto il meglio di sé in quella ch’era, invece, pressoché un’opera prima. Mi sbagliavo ed avevo ragione allo stesso tempo: Marquez, che con quella pubblicazione raggiunse nel 1967 una rapidissima notorietà mondiale che lo avrebbe portato a vincere il Nobel per la letteratura nel 1982, avrebbe scritto ancora molto. Le sue opere sono di indubbia ed indiscutibile qualità, sempre sul filo d’uno specialissimo mondo onirico sudamericano, ma, a mio avviso, nulla avrebbe raggiunto la bellezza e la profondità dei 100 anni di solitudine.

Naturalmente nella mia biblioteca ci sono tutte le sue opere. Come sempre accade per gli scrittori di successo, gli editori tendono a pubblicare ogni sua virgola scritta. D’altra parte, visto che purtroppo il mondo del libro, nella nostra “inciviltà”, non gode grandi spazi è inevitabile che si “sfrutti” l’autore di successo anche per compensare tutto quanto di pubblicato finisce invece al macero. Così di Marquez troverete in casa mia Cronaca di una morte annunciata, Il Generale nel suo labirinto, L’amore al tempo del colera, L’autunno del patriarca, Memoria delle mie puttane tristi, Nessuno scrive al colonnello ed altre opere che risuonano della bellezza e della profondità del suo primo lavoro e gli fanno da degna corte. Ma troverete anche cose meno riuscite e meno coinvolgenti, che evito di citare. Marquez ci ha lasciato nel 2014, a 87 anni. A lui dobbiamo una spinta importantissima nella letteratura moderna, portata da un mondo e da una cultura, quella sudamericana, che, come vedremo ha prodotto altri “fenomeni” (alcuni dei quali sono andati ad arricchire la mia biblioteca). A lui devo, personalmente, l’aver scoperto un universo tutto particolare che, pur nella mia avversione per quanto è fantasy, ha alimentato ed arricchito la mia visione poetica della vita.

Nell’elevato numero di traslochi che ho affrontato, la copia che mi fu regalata in quel lontano 1978 è andata perduta. O forse, come m’è accaduto per altri libri, m’è capitato di prestarla a qualcuno e non averla più indietro. Per quanto i libri siano una delle pochissime cose di cui sono geloso, tutto sommato è una perdita che mi spiace solo in parte: qualcuno, voglio sperare, ha condiviso il mio entusiasmo.

Da parte mia, una volta appurato che il libro era decisamente andato, mi sono affrettato a comprare un’altra copia dei 100 anni di solitudine. Non è lo stesso, sono d’accordo. Il sapore d’un libro, in qualche modo, è legato anche al come se n’è venuto in possesso ed al particolare momento storico in cui lo si è scoperto. Ma non potevo non averlo sui miei scaffali: ha un significato troppo profondo nella mia storia di uomo e di lettore.