«Parliamoci chiaro, don Vito, io sto mantenendo fede alla mia promessa sul mantenervi informato su O’Reilly, ma voi dovete garantirmi che la vostra parte la farete perché non mi piace troppo la piega che sta prendendo la faccenda. Il mio amico sospetta che si voglia mettere a tacere la verità comprandosi il silenzio degli interessati, motivo per cui è stato tenuto fuori dalle trattative. Di questi suoi sospetti ne ha parlato con molti. Paddy non è uno stupido e sa essere molto convincente, tanto che padre Murray, di questi suoi sospetti, ne parlerà nella sua omelia domenicale, e sapete che il prete gode di grande credito e vanta amicizie giornalistiche. Così sarà opportuno che facciate in modo che a O’Reilly non accada nulla di male! –

Tina aveva parlato in tono pacato, ma l’ultima frase, però, era risuonata intimidatoria e aveva strappato un sorriso a Lo Cascio. Quella pulce lo stava minacciando! Eppure lei era al corrente del suo modus operandi, almeno quanto bastava per indurla a toni più pacifici e ad una maggiore accondiscendenza. Bel piglio, però. Una puledra di razza, difficile da domare. E, se era vero come si mormorava che l’irlandese ci andasse a letto, doveva possedere doti di convincimento davvero notevoli, come lei gli aveva attribuito. Istantaneamente gli venne di fare il paragone tra lei e Clarice Heavenly, la sua amante del momento, che da quel confronto ne era uscita sminuita: una bellissima bambola priva di anima e di pensiero, pronta a soddisfare ogni suo desiderio, addomesticata a  non fare domande e non porre problemi. Clarice era nata per essere la donna del capo, mentre Tina, invece, possedeva il dna per essere lei stessa capo. Ma affinché in quello specifico non ci fossero fraintendimenti sulla gerarchia vigente, Lo Cascio, con violenza, le aveva preso il volto tra le mani costringendola a guardarlo negli occhi, e sibilare, a distanza così ravvicinata, il suo avvertimento: al cospetto di Vito Lo Cascio si supplica non si minaccia! Non usare mai più quel tono con me, Tina, che la prossima volta non sarò così amichevole.

L’aveva lasciata andare, ma lei, tutt’altro che intimorita, e senza retrocedere, aveva controbattuto con passione.

«Chi minaccia ha ancora una ragione da far valere, chi supplica, invece, non ne ha più nessuna. Ed io di ragioni ne ho più d’una, così sono venuta a far rapporto, come stabilito, sui movimenti di O’Reilly, ma pure a ricordarvi che avete dato la vostra parola d’onore che avreste vigilato su di lui. Non m’interessa quali siano i vostri affari, voglio solo che il mio amico ne esca vivo, ed essere sicura che la vostra parola valga ancora qualcosa dal momento che siete in combutta con quel Jimmy Hoffa  per il quale la lealtà non ha alcun significato, vista la facilità con cui si è apprestato a tradire la causa per cui è stato eletto. E un giorno magari tradirà anche voi».

Tina, vibrante di rabbia, perorava la sua causa fronteggiando Lo Cascio, provocandolo perfino, mettendo in dubbio il valore della sua promessa, per farlo uscire allo scoperto e capire quanto davvero potesse fidarsi di lui. Un tentativo puerile, che il boss, allenato a ben più complessi meccanismi psicologici, avrebbe potuto facilmente fuorviare, farle intendere una cosa ed approntarne, invece, un’altra. Ma pure, don Vito, apprezzava quel misto d’ingenuità e presunzione, la rabbia e l’ardore con cui Tina difendeva la sua causa e la vita di O’Reilly. Una lealtà commovente che non vacillava neppure davanti all’ipotesi di un suo voltafaccia o di una ritorsione. Se fosse stata un ragazzo l’avrebbe reclutata, seduta stante, fra i suoi uomini di fiducia, conquistato da quella sua dedizione nei confronti dell’irlandese, per il quale provava ora una vaga invidia. Nel mondo di don Vito la lealtà non era un valore ma un vincolo, un’imposizione, a cui non ci si poteva sottrarre, pena la morte. La lealtà che invece invocava Tina, era di ordine morale, molto simile all’innocente e solenne giuramento di sangue dell’infanzia. L’immagine di Tina e dello spilungone irlandese, intenti a tagliuzzarsi con una lametta e mischiare il loro sangue, lo aveva fatto sorridere e riportato alla realtà.

«Ma come pensi che io sia ancora vivo? È tutta la vita che mi guardo dai mercenari come Hoffa, ma anche dagli esaltati come O’Reilly. Credi davvero che Hoffa  goda di credibilità e libertà di movimento? La catena del suo guinzaglio è molto corta, può abbaiare ma non mordere. E solo su comando. E lui lo sa. Ma il tuo amico, invece, si crede sopra le parti e così sproloquia di verità contraffatte e complotti. E’ una mina vagante che pure se non provocherà esplosioni (le sue teorie, te lo assicuro, non troveranno né sponda né credito, che le prove, seppure ce ne fossero, possono essere contraffatte, e a quel tavolo, ricorda, presenzieranno bari di altissimo livello) va comunque tenuta sotto controllo almeno fino alla conclusione delle trattative.  Noi lo mettiamo al sicuro, ma tenerlo a bada sarà compito tuo».
Lo Cascio aveva adottato ora un tono più indulgente, imprimendo all’ultima frase il tono di una raccomandazione paterna

«Cosa devo fare?».

«Restagli vicino, non lasciarlo andare in giro da solo. Se qualcuno cerca di farlo bere lascia che lo faccia, ma non toccare il suo bicchiere, e soprattutto non intervenire. Se tutto va come deve andare Paddy si ubriacherà al Blues Serenade e quando sarà out lo chiuderemo in un posto sicuro da cui uscirà quando sarà tutto concluso».

«E dopo cosa accadrà?».

«L’ideale sarebbe che sparisse per qualche tempo, ma immagino che non sarà così facile convincerlo. Parla anche col suo amico prete, mettilo al corrente del pericolo che l’irlandese corre, e che stiamo cercando, suo malgrado, di salvargli la pelle. Magari padre Murray può contare sull’aiuto di qualche santo».
Lo Cascio aveva riso di quella sua battuta, ma Tina aveva scosso la testa sgomenta.

«Tutto qui?» aveva domandato incredula. «Ma certo, ora mi è chiaro, a voi interessa che rimanga vivo fino al termine delle trattative  dopo di che ve ne laverete le mani, e O’ Reilly sarà solo un morto che cammina».

 

Micky aveva  intercettato Tina mentre usciva, in un orario piuttosto insolito, da una porta secondaria del Blues Serenade, e l’aveva rincorsa per raggiungerla.

«Dobbiamo parlare!» aveva detto, imperativo, costringendola a fermarsi, e poi, in tono più conciliante aveva aggiunto: «cosa sta accadendo?».

«Non ho voglia di parlare, soprattutto con te. Lasciami in pace».
Con fredda determinazione Tina lo aveva respinto, ma pure Micky aveva intuito, in quel rifiuto, accoramento, se non disperazione. Aveva calibrato il suo passo a quello di lei, e affiancati procedevano in silenzio: lui in attesa di una risposta e lei intenzionata a non dargliela.

«C’è di mezzo l’irlandese?».

Micky non era riuscito a trattenersi dal fare quella domanda che ben sapeva avrebbe scatenato il putiferio, ma Tina, invece, non aveva reagito. Davanti a quella non-reazione, la preoccupazione di Micky era dilagata in angoscia. Si era aspettato ingiurie e parole taglienti, ma non quel mutismo, inusuale ed estraneo, al carattere della sorella. Avrebbe di gran lunga preferito il diluvio di parole oltraggiose a cui avrebbe potuto controbattere, piuttosto che quel silenzio impenetrabile in cui lei s’era trincerata.

«Ti prego, Tina, non escludermi dalla tua vita. Qualunque cosa stia accadendo io voglio esserci. Voglio stare con te. Voglio essere una volta io a spingerti sull’altalena, come quando eravamo bambini e tu mi facevi volare alto affinché non sentissi le parole cattive di papà e i singhiozzi di mamma. Io, invece, le sentivo le loro voci alterate e il rumore degli oggetti che si scagliavano conro, ma c’eri tu con me e questo mi dava coraggio. Con te non mi sono mai sentito solo. Non sentirti sola neppure tu, che con te ci sono io».

Il tono di Micky era accorato. Per la prima volta, nella sua vita, aveva sentito Tina lontana e irraggiungibile. Persa.
E come lei s’era sentito perso anche lui. Istintivamente le aveva preso la mano.  E Tina gliel’aveva stretta.