Anni fa mi recai a Torino per l’ostensione della Sacra Sindone e fu per me un vero piacere essere ospite per la notte di una mia cugina, che aveva abbandonato il nostro Sud e la speranza di ottenere una cattedra in una scuola media della Basilicata per un più promettente futuro negli uffici della CAFFAREL.
Marica, che sta per Maria Carmela, viveva, con la suocera, piemontese di origini valdesi e due figli adolescenti, all’ultimo piano di un palazzo in corso Matteotti al civico 45.
Mi aveva avvertita a telefono che non sarebbe venuta incontro al treno alla stazione Porta Nuova, ma, appena fuori, avrei potuto prendere un taxi che in breve mi avrebbe portata davanti al palazzo.
Così feci e mi stupii molto che alla guida della vettura ci fosse una donna e provenisse dal Sud anche lei.
Di fronte alla mia evidente meraviglia, la donna al volante disse:
«Signo’, qua siamo più terroni che savoiardi! Dove vi porto?»
Le indicai l’indirizzo e lei mise in moto.
Durante il tragitto, guardandomi nello specchietto retrovisore, mi domandò se conoscevo la città.
«Non abbastanza: la stazione, il duomo, la Venaria…» risposi.
Lei di rimando:
«Torino è una bella città ma… è strana, misteriosa! Secondo me la Sacra Sindone non dovrebbe stare qui, dovrebbe stare a San Pietro in Vaticano».
Non feci in tempo a chiederle spiegazioni perché svoltò l’angolo e disse:
«Ci siamo. È qui il 45!»
Pagai la corsa e scesi. L’autista, prima di rimettere in moto, si sporse sul sedile laterale, cercandomi, e con l’indice puntato mi indicò il portone del passo carraio:
«Signora, guardate in alto sul portone!»
Fece un cenno di saluto e sfrecciò via.
I lampioni diffondevano abbastanza luce tutt’intorno e i nomi sulla tastiera dei citofoni erano ben visibili.
Prima di suonare alzai gli occhi verso l’alto e notai sul portone del passo carraio un decoro insolito, sorprendente anche per me che mi portavo negli occhi i decori liberty, floreali e gotici di mezza Europa. Appena sopra il portone, da un finestrino a oblò, spuntava una mano di marmo bianco con tra le dita una lettera esposta come se qualcuno volesse attrarre l’attenzione dei passanti o dei condomini in una disperata richiesta di aiuto.
Davvero molto strana!

Mia cugina e i ragazzi mi accolsero con calorose manifestazioni d’affetto. La nonnina, che credo avesse superato gli ottanta, ma era lucida e precisa come un orologio svizzero, mi sorrise molto e mi preannunciò che avrei dormito in un letto in camera sua.
Durante la cena, tutta a base di specialità meridionali, colsi l’occasione per chiedere di quella mano marmorea sul portone condominiale.
I ragazzi risero mimando con la bocca un brivido di paura.
Marica sorrise e, indicando la suocera, disse:
«Nessuno meglio di nonna Mafalda ti può raccontare!»

Dopo cena, porsi il mio aiuto a rigovernare la cucina mentre Marica mi raccontava del suo sfortunato matrimonio.
A un tratto la nonnina interruppe la nostra conversazione, invitandomi a seguirla in camera.
La signora Mafalda fu prodiga di particolari nel suo minuzioso racconto.
Siamo ai primi del ‘900. Venne ad abitare nel palazzo una signorina, forse francese, di nome Ebe de Marivaux. Era giovane e bella, elegante, affascinante, non propriamente virtuosa. Si dava al migliore offerente e passava con facilità da un amante all’altro. Il danaro non le bastava mai, tanto che mandò in rovina uomini e famiglie di Torino e del circondario, valli e cime comprese.

Un banchiere russo, noto per esercitare pratiche di magia nera e finito al lastrico per colpa della suddetta signorina, una sera, accecato dal rancore e dalla gelosia, tentò di ucciderla con una pugnalata al cuore. Sbagliò mira e il pugnale si piantò nel tronco di un albero che era nei pressi, lasciando indenne la Ebe. La notizia dell’accaduto fece scalpore e scandalo.
Fu l’inizio di un lento e costante declino per la signorina che precipitò in uno stato di abbandono e di isolamento. Nessuno la cercava più. Era piena di debiti, malata e disperata!

E poi? Che ne fu di lei?
Una notte le mura del palazzo furono scosse da urla strazianti. Le porte e i battenti delle finestre e dei loggiati si aprivano e si richiudevano con uno stridore insopportabile. Per le scale un salire e scendere pesante e forsennato. Tutto intorno un fumo nero e nauseabondo.
La gente per bene del condominio non osò mettere il naso fuori dalle proprie stanze.
Il sabba durò fino all’alba. All’improvviso tutto tacque.
I raggi di un pallido sole non riuscirono neanche per un istante a farsi largo nella grassa cortina di nebbia.
Della signorina Ebe si perse ogni traccia e quando finalmente schiarì il cielo, (come fu, come non fu?), apparve quell’oblò e quella mano sulla facciata del palazzo.