Se ne è andato sbattendo la porta.
Dai rami addobbati, dell’albero di Natale, è colata una pioggerella impalpabile di porporina e pulviscolo d’argento: un brillio irreale ha avvolto la stanza.
Le fiammelle delle candele sono avvoltolate su se stesse disegnando sul bianco delle pareti strani arabeschi, geroglifici invocanti un suo ripensamento.
Inutilmente.
Lui è fuori, nel pomeriggio già buio, insensibile al richiamo delle luci della festa.
I flute di cristallo vuoti, scintillanti sull’oro della tovaglia, raccontano di un augurio mai pronunciato.
Ha iniziato a cadere una fitta pioggia, incessante e fredda.
Poi è sceso il silenzio, dopo che se ne è andato lasciandosi dietro un duro vuoto fisico.
Un vuoto poi invaso da fitte ombre voraci che, colando dal grigio plumbeo esterno, sono penetrate nella stanza oscurando il chiarore di fumo delle candele.
Avvolti dalle ombre improvvise di questa eclissi non annunciata, gli angeli, con le ali di cera raggrumate e le fisionomie stravolte, si sono involati dalle loro icone, come uccelli rapaci in agguato sui lampadari barocchi, pronti ad avventarsi nel buio.
Angeli incoerenti, senza più cielo.
Deliranti, dopo che lui se ne è andato sbattendo la porta.
Senza voltarsi indietro.
Volutamente ignorando le ombre che minacciose si allungano dietro le tende di merletto.