Erano le prime ore della mattina di una calda giornata di fine maggio del 2010. La signora Adelina, come tutti i giorni, era seduta intorno al tavolo della mensa a fare colazione, insieme alle altre ospiti della casa di riposo per anziani, che la ospitava da circa un anno. Ma quel giorno, notai, che era molto nervosa.
Più volte dovetti rimproverarla di non fare le briciole in terra, ma non c’era verso di farglielo capire. Per di più con la mano tremolante, lasciava versare il latte che in parte cadeva nel piattino e poi in terra creando, ai suoi piedi, una disgustosa poltiglia. Dopo la colazione, con passo malfermo e la vestaglietta quasi tutta impataccata si diresse verso il giardino e si sedette su di una panchina, all’ombra di una grande quercia. Come responsabile dei degenti della clinica, mi sentii in dovere di capire il suo comportamento asociale, molto insolito per il suo carattere, di solito allegro e cordiale. Mi avvicinai con cautela, mi sedetti accanto a lei, sulla panchina e con il mio braccio cinsi le sue spalle. Poi, come se mi trovassi di fronte a una bambina, le dissi:

“Adelina, cosa c’è che non va, questa mattina?”

Mi guardò triste con i suoi grandi occhi azzurri che però, in quel momento, erano spenti e mi rispose quasi sussurrando:

“Domani viene a trovarmi Teodora, mia figlia…”

Non la feci finire di parlare. Balzai in piedi, presi le sue mani tra le mie, poi presi a carezzarle i capelli  che nonostante la sua età, erano ancora lunghi, folti, ricci e bianchi, “Che bella notizia! Come mai non sei contenta?”

“E come posso esserlo! Ci vuole coraggio. E’ stata Teodora a rinchiudermi in questo posto. Si è fatta plagiare da quello strizzacervelli del marito”.

“Ma davvero Adelina? Me ne vuoi parlare? Magari sfogandoti, ti liberi di questo peso. Vieni, spostiamoci verso la fontana con i pesci colorati, lì c’è più ombra”.

“Sì, sì andiamo che ho caldo”.

Anche lì c’era una panchina, da dove potevamo vedere i pesci  lucenti come stelle filanti, che guizzavano nell’acqua a velocità vertiginosa. Speravo che questo spettacolo rassicurasse un po’ l’animo della signora Adelina. Invece, ignorando le bellezze del paesaggio circostante, molto arrabbiata, disse:

“Teodora, fin da bambina, era la mia croce. Per farla mangiare ero costretta a tirarle indietro la testa, afferrandola per i capelli. Solo così inghiottiva il cibo. Non era di buon appetito”.

“Lo so, ma devi ammettere, che non era un metodo molto educativo.”

Lei, agitò in aria le braccia, come per scacciare dei fastidiosi insetti e disse: “Sono stata giovane anche io, forse a quei tempi, non ero pronta per fare la madre”.

Provai per lei, un po’ di comprensione e tanta tenerezza, così raccolsi dal prato un fiore, “Questo è per te Adelina, consolati”.

Lei con gli occhi che, in quel momento, brillavano dalla gioia per questo semplice dono, mi disse: “Mi dai anche un bicchiere d’acqua per questa rosa? E’ un gesto carino da parte tua, la voglio portare in camera per ricordare questi discorsi con te, Angela, che sei una persona così brava”.

“Si, quando ritorniamo in camera, ti do un bicchiere. Ti va di continuare a parlare? Noto che sfogarti ti fa bene”.

“Sì, sì parliamo ancora”.

Così dicendo, la signora Adelina, si alzò in piedi e si sedette sul bordo della vasca, questa volta ammirando i pesci colorati, “Che belli che sono! Quando tutti insieme schizzano un po’ fuori dall’acqua, formano in aria quasi un piccolo arcobaleno”.

Mi avvicinai a lei, sedetti anche io sul bordo della vasca e bagnai le mie mani che passai sul mio viso per rinfrescare un po’ la pelle. Poi, più curiosa che mai, incalzai la signora Adelina con le domande:

“Tua figlia andava bene a scuola?”

“Bene? Andava  malissimo. Fin dalle elementari dovetti mettere un insegnante di sostegno. Non aveva proprio fantasia di studiare”.

“Fece le scuole superiori?”.

“Sì, il liceo artistico. Io e il mio povero marito che, come ben sai, è venuto a mancare a causa di un infarto poco prima che entrassi in questa clinica, non volevamo perché giravano brutte voci su quel tipo di scuola. Molte persone dicevano che non dava una buona preparazione scolastica e l’ambiente era brutto”.

“In che senso?”

“Era frequentato da tanti scapestrati di estrema sinistra, che facevano uso di droghe e alle manifestazioni lanciavano molotov a destra e a manca. Sai, erano gli anni settanta. Un periodo di grande fermento politico”.

“Sì, mi ricordo. Tua figlia, era per caso una femminista?”

“Altro che! Andava in giro con i capelli raccolti in una lunga treccia, le lunghe gonne fiorate, le casacche larghe e ai piedi calzava gli zoccoli. Aveva tante amiche femministe come lei, con le quali partecipava a tutte le manifestazioni per le donne di quel tempo. Per questo la rimproveravamo molto. Ma lei non ci ascoltava”, disse facendo un lungo sospiro.

“Adelina” dissi scuotendo la testa e rimproverandola un poco “che male c’è se tua figlia era una militante femminista. Anche io all’epoca partecipai a varie manifestazioni. E come vedi, sono qui sana e vegeta. Mi ha fatto solo del bene essere una femminista. Se oggi ho un buon lavoro lo devo anche alle contestazioni di allora, tanto più che svolgo mansioni che sono anche maschili e guadagno alla pari di un uomo. Posso guidare perché con il mio stipendio mi sono potuta comprare una macchina. E sono autonoma, indipendente. Me ne frego che non ho un compagno. Basto a me stessa, come mi hanno insegnato le femministe di quegli anni. Come vedi, devo molto a quel movimento di contestazione.”

Adelina rise e mi diede una pacca sulle spalle, ma aggiunsi trepidante: “Forse c’è dell’altro? Qualcosa di brutto sul conto di Teodora?”

“In effetti, qualcosa accadde. Verso la fine del liceo conobbe un certo Nicola, che tutti chiamavano Nicky. Anche lui stava per fare la maturità. Era un ragazzo punk, quindi vestiva tutto di nero e sfoggiava catene che portava ai polsi, in vita e sugli stivaloni… Aveva i capelli dritti in testa, che si reggevano grazie al gel che metteva in abbondanza, ma il suo viso era pallido.”

“Un vero soggetto”.

“Puoi ben dirlo. Inoltre aveva un carattere schivo. Il suo unico amore era la musica rock, che ascoltava di continuo. Quando un giorno Teodora lo portò a casa, inorridii e le proibii di frequentarlo”.

“Ascoltò i tuoi consigli?”

“Figurati! Andò a vivere con lui in una soffitta, a via dei Chiavari. La convivenza, però durò poco perché Nicky partecipava a dei festini, dove si drogava e faceva sesso a tutto spiano con molte donne. Per questo lui e Teodora litigavano sempre e si picchiavano, anche. E presto si lasciarono.”

“Tornò da voi?”

“Si, tornò. Noi l’accogliemmo a braccia aperte, ma tra me e lei il rapporto continuò a essere conflittuale. Io le rimproveravo le sue continue trasgressioni e lei non sopportava la mia mentalità che, secondo i suoi gusti, era molto ristretta”.

“Ma lei poi mise la testa a posto, dal momento che adesso è sposata con un dottore”, le dissi compiaciuta.

Lei si alzò lentamente, “Ho voglia di sgranchirmi un po’ le gambe. Te ne parlo camminando.”

La presi a braccetto, iniziammo a passeggiare in giardino, così riprese il suo racconto: “All’Università conobbe Leopoldo. Lei studiava Lettere e lui Medicina. Voleva fare lo psichiatra. Si conobbero alla mensa a via Cesare de Lollis, come mi raccontò Teodora. Quando si sedettero ai tavoli si accomodarono uno accanto all’altra e si resero conto di essersi scambiati i vassoi. Teodora esclamò – Ma la pasta al pesto è la mia!–

–Ed è mia quella al ragù– rispose Leopoldo. Scoppiarono a ridere e iniziarono a raccontarsi”.

“Che approccio simpatico!”

“Poi, con il tempo, iniziarono a uscire e nel giro di un anno si sposarono. Volevano subito un figlio, ma ciò fu impossibile, a causa di una malformazione all’utero di mia figlia”.

“Peccato”.

“Sì, ma non mostrarono alcun dolore, per l’impossibilità di avere figli”. Dopo una breve riflessione aggiunse, “Ti confesso che adesso neanche Leopoldo mi piace. Non sopporto gli psichiatri. È a causa sua se oggi mi trovo qui. Suggerì a mia figlia questa clinica, perché non faceva altro che dire che dovevo socializzare con gente della mia età.”

“Avranno cambiato idea”.

“Perché dici questo?”

“Adelina sediamoci sul dondolo. Quello che sto per dire ti potrebbe far avere un mancamento”.

“Sediamoci, ma dimmi dimmi”.

“Qualche giorno fa, mentre stavo sistemando alcune pratiche in Direzione vidi tua figlia con il marito che, un po’ appartati, parlavano con la direttrice. Non avrei dovuto ascoltare, ma non resistetti per la curiosità. E sentii tua figlia dire che voleva portarti a vivere a casa sua. La Direttrice le disse che non era possibile subito, ma che ci avrebbe pensato. Forse domani vai via con loro”.

“Ma dici davvero, Angela? Fosse vero! Non importa se Teodora e Leopoldo per me non sono il massimo della simpatia. Se mi permettono di uscire da queste quattro mura, Dio li benedica. Gli sarò per sempre grata. Questa notte di sicuro dormo più tranquilla. Dai Angela, accompagnami in camera, sono stanca”.

“Dai, andiamo. Ti do anche il vaso per la rosa. Che ti porti fortuna!”

La mattina dopo iniziai a fare il mio solito giro delle stanze al piano superiore per vedere se i miei nonnetti erano già svegli. Quando entrai nella camera di Adelina rimasi stupefatta. Era già in piedi e vestita con eleganza. Indossava un abito di seta blu con i fiori azzurri, il suo colore preferito. Al collo aveva vari giri di collane di perle bianche di varie dimensioni e ai piedi calzava sandali chiari con il tacco. Inoltre si era pettinata anche molto bene. Aveva raccolto i suoi folti capelli in una specie di tuppo.

Le andai incontro e le dissi: “Quanto siamo belle!”

La presi per mano e le feci fare un giro su sè stessa, mentre lei rideva di cuore. Ero felice di vederla contenta. Quando scendemmo al pianterreno la figlia e il genero erano già nella sala di attesa. Quando Teodora la vide si alzò immediatamente dalla poltrona dove era seduta, andò incontro alla madre e la baciò sulle guance e le disse: “Ti trovo in ottima forma, mamma. Ti sono venuta a prendere. Vieni a stare con noi. Hai preparato la valigia?”

Adelina sorrise compiaciuta e rispose: “Ieri sera, non ero sicura che oggi sarei venuta via con voi, ma per scaramanzia l’ho preparata. Pensa, l’ho fatta questa notte. È nell’armadio. Angela, per cortesia, la vai a prendere?”

Le portai la valigia, ci salutammo calorosamente poi lei si avviò verso l’uscita con Teodora e Leopoldo con aria trionfante, e li seguì trotterellando. Mi venne spontaneo pensare: “Speriamo che Adelina si riconcili con la figlia e stia bene con loro”.

Un desiderio che venne esaudito. Dopo circa un mese, una mattina, mentre stavo riordinando dei faldoni in Direzione vidi entrare la signora Adelina con Teodora e Leopoldo. Le andai incontro, mentre la figlia e il marito, si fecero un po’ in disparte educatamente, per farci parlare a tu per tu. Le dissi con fare scherzoso “Vuoi tornare a stare con noi?”

“Non ci penso proprio. Siamo venuti a pagare l’ultima retta del mio soggiorno in questa clinica.”

Carezzandomi una guancia aggiunse: “Mi manchi cara Angela. Ma a casa di mia figlia sono trattata come una regina. Teodora mi cura, mi accudisce, mi ama. La mia femminista ribelle non è poi una cattiva figlia”.

“E’ musica per le mie orecchie”, risposi mentre le diedi un buffetto sulla guancia.

Mentre parlavamo Teodora e Leopoldo avevano sbrigato  la pratica e presero  la madre sottobraccio per portarla fuori mentre lei camminando mi salutava con la sua  mano piccola e un po’ paffuta. Dalla commozione mi si rigò il viso di lacrime, ma ero felice per come si era sistemata la vita di Adelina.

Da quel giorno non l’ho più vista. Ma a ogni ricorrenza mi invia biglietti di auguri dive mi dice di stare bene. Queste sue attenzioni mi bastano e ogni volta che leggo le sue poche parole mi si riempie il cuore di gioia.

Ma adesso altri nonnetti hanno bisogno di me.

In clinica ci sono molte altre persone che desiderano ritornare a vivere con i propri figli. Ascolto tutti i giorni le loro storie e mi rendo conto che i problemi degli anziani sono tanti, ma soprattutto quasi tutti, in questa clinica, si sentono soli, abbandonati ed emarginati dai loro cari. Per loro non posso fare altro che sperare che ci sia un lieto fine, come è stato per Adelina.