Ha promesso che, nonostante tutto, ne ricaverà una bella immagine.
Ma io dubito fortemente che possa riuscirvi.
Chiudo i tendaggi per impedire alla luce di filtrare e mi raggomitolo ostinandomi nel mio buio, schermandomi con i capelli e respingendo ogni ipotesi collaborativa, o di sola apertura, verso l’esterno.
Rimani così, sei perfetta.
M’impone la voce al di là dell’uscio.
Ma io, anche se volessi trasgredire, non potrei fare neppure un movimento: il disappunto me lo covo dentro, nelle viscere immobili e nel respiro trattenuto.
Rimani così, sei bellissima.
Sussurra, ancora, la voce.
Non sono bella, sono morta, non lo vedi?
E’ questo che vorrei obiettare se solo ancora avessi una voce o la capacità di un gesto.
Non sono più niente e tutta questa scenografia è solo un inganno, un pretesto.
Un alibi per l’esterno.
La luce mi proietta capovolta, nitida come non lo sono mai davvero stata, e così  è pur vero che sono gli inganni a passare alla storia, fissati in dagherrotipi muti, senza veri colori, come nebbia sbiadita dalla quale emerge, con un qualche nitore, un solo particolare o degli insiemi secondari, e da quelli si ricava la traccia della storia.
E la mia immobilità è, al contempo, acquiescenza e rifiuto: l’involucro, che l’occhio spia, dal foro stenopeico della camera oscura.