Non ci sono solo cattivi libri, brutti film, ignobili tentativi di fare poesia: c’è di peggio, qualcosa di strisciante, viscido come un’anguilla che ha fatto il bagno nella bava di lumaca, perverso come certe usanze delle streghette con cui ho avuto a che fare tempo fa (non ve ne ho ancora parlato? Lo farò, lo farò: è una minaccia, non una promessa!).

Ma parliamo di cattive, anzi di pessime abitudini, ho notato come sia ormai generalizzata la tendenza ad estrapolare frasi da un contesto per presentarle come icone di saggezza, anzi, di Saggezza con la maiuscola.
E’ una pessima abitudine, perché spinge a fermarsi sempre di più alla superficie delle cose, sostituendo l’informazione alla mediazione e all’approfondimento culturale.

Un esempio facile facile? La famosa citazione “O capitano! Mio capitano!” che è quasi il filo conduttore del film «L’attimo fuggente» di Peter Weir, ed è tratta dall’omonima poesia che fa parte della raccolta Foglie d’erba di Walt Whitman.
Mi piacerebbe sapere quante delle persone che si sono commosse e hanno portato la frase ad esempio di rivolta intellettuale contro la rigidità della cultura accademica (secondo Reggiani addirittura «un canto sulla speranza e il diritto di credere») si sono curate di andare a leggere la poesia.
Voi naturalmente l’avete fatto, come avevo fatto io prima ancora che uscisse il film, per la verità non riportandone una particolare impressione. E cosa avete scoperto?
Oibò (sapevate che è una contrazione del latino [heu bone deus]?) la poesia è stata scritta in riferimento all’assassinio di Abramo Lincoln ed è una metafora estesa della guerra di secessione americana: logico che sia l’unica poesia di Whitman antologizzata durante la vita del poeta!

Intendiamoci, non dico che l’uso che ne viene fatto nel film sia scorretto: è sbagliato quello che se ne fa quotidianamente nei media, soprattutto sui social. Citiamo quella frase e abbiamo raccontato tutto Whitman, azzardiamo un trafiletto di Freud e uno di Jung e abbiamo rappresentato l’origine della psicologia, buttiamo lì un verso di Dante (per esempio «vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare) e abbiamo reso il senso della piccolezza dell’essere umano secondo il Sommo Poeta di fronte all’immanenza divina.
Ma fatemi il piacere!

Attenzione, tutto questo non è soltanto ridicolo, è pericoloso!
Abituarsi a pensare per schemi è il miglior viatico per smettere di pensare, e «il sonno della ragione genera mostri» 🙂

(Tra parentesi, il titolo originale del film era  Dead Poets Society, ma forse era ritenuto troppo complicato per i pubblico italiano…)