3 marzo 1971. Era un mercoledì, ma non ricordo che tempo facesse quel giorno mentre alle 8 del mattino superavo la sbarra dell’ingresso carraio della caserma Bafile, per iniziare la mia vita militare da Ufficiale, da comandante di uomini, dopo 4 anni di studi e di attività formative.

La mente riandò ad un’aula del Liceo Classico B. Marzolla di Brindisi e risentii la voce della Di Vittorio, nostra prof di lettere e Vice Preside dell’Istituto che ci diceva, in risposta alle proteste per i troppi compiti e per quella impossibile versione dal greco da tradurre in un’ora: “Quante volte rimpiangerete queste ore tra i banchi, quando le impossibili versioni dal greco o le pagine di letteratura da studiare vi sembreranno una inezia in confronto alle situazioni che la vita vi chiederà di affrontare e risolvere!”.

“Che il Cielo me la mandi buona!”, mi dissi mentre parcheggiavo la mia 500 nel posto “VISITATORI”, come mi indicava il capo posto, un caporal maggiore enorme, con delle mani enormi, che mi disse con voce cavernosa e con chiaro accento veneto “Comandi sior tenente, benvenuto all’Isonzo”, mentre si irrigidiva nella posizione di attenti, portando la sua enorme mano destra tesa, con le dita tese ed unite, all’altezza del fregio dorato sul basco nero. Risposi al saluto ringraziandolo per il benvenuto e mi avviai verso il Comando per le operazioni di rito per un nuovo arrivato: presentazione al Comandate innanzitutto, che mi avrebbe assegnato ad una delle compagnie, saluto poi agli altri Ufficiali ed incontro con il Capo Calotta. La Calotta, per i non addetti ai lavori, è quella organizzazione che riuniva in un reparto gli Ufficiali subalterni (tenenti e sottotenenti), con lo scopo di rafforzare lo spirito di appartenenza al reparto ed indirizzare sui giusti binari l’attività dei nuovi arrivati. Il più anziano dei subalterni assumeva tali responsabilità con il titolo di Capo Calotta.

Il Capo Calotta, già! Quante volte avevamo parlato tra noi giovani sottotenenti appena promossi, mentre ci preparavamo a raggiungere i reparti, di questa figura dell’organizzazione così temuta, che ci avrebbe guidati nei primi passi dell’attività di comandante, insegnato i trucchi del mestiere per evitare figuracce, che avrebbe in sintesi significato la nostra fortuna o disgrazia a seconda del fatto che la “C” del titolo di capo calotta fosse stata maiuscola o minuscola.

E la “C” del mio Capo Calotta era decisamente maiuscola!

Arnaldo, questo il suo nome, mi è stato vicino sin da quel mio primo giorno, sempre presente ma mai assillante: mi ha fatto toccare le situazioni con mano, lasciando che andassi verso l’errore per poi fermarmi prima di sbagliare in modo che restasse più impresso nella mia mente, senza mai dire: “io ho fatto…..”, “ io ho detto….”.

Uno dei suoi insegnamenti lo ricordo più degli altri: mi disse di presentarmi per primo a tutti i sottufficiali anziani del Reparto, senza aspettare, in virtù del grado, che fossero loro a farlo, perché loro erano i depositari della storia del Reparto: arrivati da giovani sergenti, avevano visto passare tanti giovani Ufficiali, arrivati come tenenti e ritornati, poi, come comandanti di battaglione, o, molti di meno, come comandati di reggimento e solo qualcuno come generale.

E fu seguendo grazie a questo suo consiglio che conobbi il Maresciallo Amilcare Anselmi Cavassa.

Quando bussai alla porta su cui campeggiava la targa “Comando Battaglione – Sezione Matricola”, una voce leggera e dolce, quasi femminile, mi invitò ad entrare. Mi trovai dentro una stanza quadrata, con il soffitto altissimo, e scaffali altrettanto alti che ricoprivano senza soluzione di continuità le pareti, tranne che per un riquadro di 1 metro per 1 metro, in alto di fronte alla porta, occupato da una finestra con i vetri resi opachi dalla polvere, attraverso i quali anche i raggi del sole avrebbero avuto problemi a passare, figuriamoci la debole luce di una giornata nuvolosa. In compenso un portalampada di ferro smaltato di colore grigio con una sola lampadina, che scendeva dal soffitto, retto dal  cavo elettrico intrecciato a matassa, come quelli che ricordavo nella vecchia casa della nonna, illuminava una grande scrivania di legno, su cui erano disposte ordinate ed allineate, come un plotone in parata, pile di raccoglitori sui cui dorsi erano annotate a mano, con pennarello nero, date e numeri di scaglioni. Dietro questo plotone di raccoglitori fece capolino una chioma nera, con qualche striatura di grigio, accuratamente pettinata all’indietro in onde successive che sicuramente richiedeva una meticolosa cura giornaliera. Seguirono poi una fronte spaziosa, due grandi occhi marroni un po’ tristi, un paio di occhialetti posati su un bel naso come quelli delle statue degli antichi greci, un paio di baffetti ben curati su una bocca sottile, atteggiata in un sorriso che lasciava intravedere la dentatura tipica del fumatore incallito. Eh già, ho tralasciato il fumo che si levava in spirali da un posacenere colmo di cicche, per finire, dopo aver avvolto la lampadina e superata la convessità del portalampada, risucchiato da un estrattore sistemato in un riquadro della finestra al posto del vetro ed espulso all’esterno. Quando il Maresciallo Anselmi Cavassa (scoprii poi che ci teneva ad essere chiamato con tutti e due i cognomi) si alzò dalla sedia e, posati gli occhialetti e la sigaretta, girò intorno alla scrivania per venire verso di me, non potetti non notare, oltre la figura ben proporzionata nel suo metro e settanta circa, l’eleganza della camminata, con il busto eretto e la fronte alta e la fattura della sua camicia militare, sicuramente non di ordinanza, ma fatta su misura, che scendeva liscia, regolare senza pieghe e senza quelle brutte appendici che normalmente si formano intorno alla cintura stretta. Anche i pantaloni calzavano perfettamente, con la piega che scendeva diritta sulle scarpe lucide e, anche quelle, di un colore non perfettamente di ordinanza. Insomma una figura decisamente in contrasto con quella stanza, a cui mancava solo il monocolo per ricordare quella di un generale prussiano.

Facemmo le presentazioni e si scusò di non poter scambiare qualche chiacchiera con me, ma aveva da completare la documentazione dello scaglione appena congedato. Ci ripromettemmo di porre rimedio alla prima occasione, magari davanti ad un caffè.

Passò un bel po’ di tempo, assorbito com’ero dalle attività giornaliere del reparto, mentre cercavo di imparare a fare il comandante, prima che il Maresciallo Anselmi Cavassa ricomparisse nel mio mondo. Accadde una sera al Circolo, dove noi Ufficiali scapoli ci riunivamo dopo cena per scambiare due chiacchiere o per lamentarci, o per fantasticare sull’incontro con la donna della nostra vita, a seconda di quale fosse stato l’andamento della giornata. C’era lì con noi anche Arnaldo (il Capo Calotta, anche lui scapolo) e mi venne da chiedergli che tipo fosse il Maresciallo Anselmi Cavassa, parlandogli delle mie impressioni sul primo incontro con lui.

Arnaldo si versò dell’altra grappa nel bicchiere vuoto, accavallò le gambe ed iniziò a parlare.

Amilcare era il secondo genito di Alberico Amedeo Cavassa Conte di Saluzzo e, come da tradizione per il secondo genito di una famiglia nobile, aveva dovuto scegliere tra la vita sacerdotale e quella militare. Aveva optato per la seconda, scegliendo però di diventare sottufficiale anziché ufficiale, perché così, per citare le sue parole “sarebbe stato più vicino al mondo reale, quello popolato dalle persone reali, quelle che, per nascita, erano così distanti e diverse da lui e la cui conoscenza lo avrebbe aiutato a diventare” – egli stesso – “più vero e reale”.

Aveva scelto di servire in un Reparto lontano da Saluzzo e dal Piemonte, in una specialità, i Lagunari, così lontana da quella degli Alpini che sarebbe stata più affine all’ambiente montano in cui era nato e cresciuto, ma per questo con scarse probabilità che il suo cognome fosse conosciuto.

Dopo la trafila nelle unità operative quale comandante di squadra, promosso maresciallo era stato assegnato all’Ufficio Matricola del Battaglione, di cui, raggiunto il massimo grado della sua categoria, era diventato il responsabile.

Aveva sempre condotto una vita ritirata, evitando, se non quando fosse veramente indispensabile, le riunioni conviviali fuori dal servizio. Non era sposato, anzi, disse Arnaldo, non c’era nessuno che potesse dire di averlo visto in compagnia femminile. Divideva il suo periodo di 30 giorni di ferie in due parti uguali; 15 giorni in Agosto e 15 nel periodo natalizio, quando, alla guida della sua Lancia HF blu, partiva alla volta del Piemonte, per passare un periodo di relax in famiglia, come egli stesso soleva dire.

Aveva una sola distrazione, se così vogliamo chiamarla, il bar ristorante “Alle Gemelle”, così era noto tra di noi militari il locale in paese dove eravamo soliti cenare almeno una volta alla settimana. “Le gemelle” erano Linda e Pippo, che insieme ai genitori e alla sorella più giovane, Ada, gestivano il ristorante meta delle nostre serate fuori caserma, di cui non ricordo, perché mai usato, il nome reale. Linda e Pippo (non credo fosse il suo vero nome) erano tanto simpatiche ed allegre per quanto bruttine, mentre Ada non solo era simpatica ed allegra anche lei, ma anche decisamente attraente ed oggetto, quindi, delle attenzioni di tutti gli Ufficiali. Decisi di non riservarle le mie di attenzioni quando mi accorsi dell’interesse, sebbene molto discreto, nei suoi confronti da parte di Arnaldo (come avrei potuto io giovane tenete competere con il Capo Calotta?).

Il Maresciallo Anselmi Cavassa era lì tutti i giovedì sera, cascasse il mondo, sempre seduto al solito tavolo, impeccabile nella sua uniforme ordinaria, davanti alla sua bistecca ai ferri, ben cotta, con insalata mista ed il quartino di vino rosso della casa. Il giovedì sera non c’era molta affluenza e così Linda e Pippo, finito di servire ai tavoli, si sedevano a bere il caffè e l’ammazzacaffè al suo tavolo. E con loro che il Maresciallo Anselmi Cavassa diventava un altro, rideva e scherzava, replicava alle battute piccanti delle gemelle con una arguzia e compiacenza che difficilmente chi lo conoscesse avrebbe sospettato e… parlava di sé – raccontava proprio quanto Arnaldo mi stava svelando – quando raggiungeva il terzo o quarto bicchiere di grappa.

Insomma di lui si sapeva solo quello che egli stesso aveva raccontato a Linda e Pippo, nessuno della sua famiglia o degli amici del suo paese era mai venuto a trovarlo, né, a detta del centralinista della caserma, unico posto dal quale si potesse contattare il mondo esterno, il Maresciallo Anselmi Cavassa era mai entrato a chiedere di essere messo in contatto con un numero di telefono urbano o interurbano. Ma a tutto ciò in caserma non si dedicava poi molta attenzione: il Maresciallo Anselmi Cavassa era un modello di correttezza nel comportamento ed efficienza sul posto di lavoro e poi, in fondo, ognuno aveva il diritto di raccontare o tenere per sé i fatti della propria vita privata. Linda e Pippo tuttavia non erano militari, ma due simpatiche e curiose impiccione.

Tutto accadde nell’agosto del 1972, quando il Maresciallo Anselmi Cavassa non fece rientro dalla consueta licenza estiva. Non era mai successo in tanti anni di servizio e sicuramente al comando era giunta comunicazione del motivo che aveva comportato il prolungamento delle ferie, ma, giustamente, era rimasto a conoscenza degli addetti ai lavori. Tra gli addetti ai lavori non c’erano sicuramente Linda e Pippo, che diedero così vita ad un vero e proprio toto-motivo-assenza. Se si fosse trattato di una disgrazia, diceva Linda, quella pragmatica tra le gemelle, sicuramente si sarebbe subito saputo, quindi doveva essere qualcosa legato alla famiglia: magari Michele, così lo chiamava lei, era dovuto restare per organizzare la prossima vendemmia nei vigneti di famiglia e la successiva produzione del Barbera che, come le aveva confidato, era destinata prevalentemente all’esportazione nei paesi del nord Europa. Invece secondo Pippo, la gemella romantica, c’era sicuramente di mezzo una donna, quella piacente vedova di un caro amico di Alfonso, il fratello di Michele, che viveva in un paesello vicino e che Michele stesso, come le aveva confidato, dalla morte del marito, aiutava con la contabilità dell’azienda del defunto consorte. Certamente era scoccata la scintilla! Matrimonio in vista! E lei e Linda e anche Ada, perché no, sarebbero state nella lista degli invitati.

La faccenda si protrasse per qualche giorno tra altre strampalate congetture, quando un giovedì sera Linda e Pippo si avvicinarono al tavolo dove cenavo con Arnaldo e, senza troppi preamboli, mi chiesero se fossi disposto ad accompagnarle a trovare Michele. Sapevano che non ero di servizio nel weekend ed avremmo usato il Mercedes del loro papà, avrei potuto anche solo lasciarle davanti alla sua casa e passare poi a riprenderle se avessi ritenuto sconveniente entrare anch’io, dopotutto con Michele si era parlato tante volte di andare a trovarlo! Guardai Arnaldo e dal suo sguardo capii che aveva già dato la sua approvazione, per cui non mi restò che acconsentire, se non altro avrei guidato per la prima volta una Mercedes.

Il sabato mattina partimmo prima dell’alba in modo da raggiungere Saluzzo entro l’ora di pranzo, cercare la casa dei Cavassa e fare una bella sorpresa a Michele. Sicuramente ci avrebbe invitato a pranzo, Linda e Pippo ne erano sicure e, secondo Pippo, avremmo anche conosciuto la bella di Michele.

Non fu difficile trovare la residenza del Conte Cavassa: il primo a cui chiedemmo informazioni, ci indirizzò verso la periferia occidentale della città: “Dopo il distributore dell’AGIP” – ci disse – “c’è un bivio con una madonnina posta in una nicchia ricavata nel tronco di un vecchio albero. Prendete a destra verso la collina e dopo un circa chilometro vi troverete di fronte al cancello della villa dei Cavassa. Non potete sbagliarvi!”.

Il grosso cancello di ferro tra le alte mura di pietra era aperto. Entrai e dopo aver percorso un bel viale alberato lastricato di sampietrini, parcheggiai l’auto davanti ad una grande casa colonica con la facciata che era un mosaico di lastre di pietra di varie forme e dimensioni e dai colori che variavano dal grigio al marrone chiaro, ricca di fiori sui balconi e sui davanzali delle finestre e con un angolo ricoperto dall’edera, che si arrampicava verde e fitta fin quasi alla grondaia marrone. Sembrava che non ci fosse nessuno, nessuna macchina parcheggiata, nessun rumore, nessun movimento dietro le tende delle ampie vetrate poste su entrambi i lati del portone di legno massiccio. Ci avvicinammo e suonai il campanello. Dopo un po’ sentimmo dei passi all’interno e quando il portone si aprì comparve un signore sulla settantina, in camicia bianca e pantaloni neri e con paio di baffi a manubrio, ormai completamente grigi. Chiedemmo di poter vedere il Conte Michele Anselmi Cavassa, precisando che eravamo suoi amici venuti dal Friuli per fargli un’improvvisata. Pietro, così disse di chiamarsi il maggiordomo di casa Cavassa, ci disse che il Conte e Signora non erano ancora rientrati dalle vacanze in Norvegia e che il loro figlio Alfonso, non Michele come avevamo detto noi, era stato invece trattenuto per affari a Milano e sarebbe rientrato solo il lunedì. Ci invitò comunque ad entrare guidandoci verso un ampio soggiorno, dove ci invitò a metterci comodi mentre andava a prendere qualcosa di fresco da bere.

Pietro ritornò con una caraffa di limonata fresca che versò nei bicchieri che aveva preso da una credenza alle nostre spalle e ci chiese se avessimo nulla in contrario che si sedesse lì con noi. Fu Pippo a chiedere di Michele, che noi credevamo fosse il secondo genito del Conte ed attualmente maresciallo in servizio in Friuli, omettendo di riferire tutto il  resto delle notizie che lei o meglio tutti noi avevamo di lui. Pietro ascoltò senza interrompere e poi, posato il bicchiere sul tavolinetto, iniziò a parlare. Il Conte aveva un solo figlio maschio Alfonso e il nostro Michele non poteva che essere il figlio di Antonio Anselmi e di Gianna Cavassa, che precisò, non era imparentata con il Conte pur portando lo stesso cognome, cosa che, peraltro, era abbastanza comune nella zona, in quanto nel passato si era soliti rivolgersi alla servitù chiamandoli con il cognome del padrone e, a volte, questo era stato anche trascritto nei registri dell’anagrafe. Antonio Anselmi era il giardiniere del Conte e aveva ottenuto di vivere con la moglie Gianna nel magazzino degli attrezzi sul retro della casa, abbastanza grande da poterne ricavare un paio di camere ed un bagno, il tutto realizzato con la manodopera di Antonio ed i materiali generosamente comprati dal Conte. Michele era nato un paio di mesi dopo Alfonso ed era sembrato a tutti naturale che, in seguito, venuti a contatto nel vasto giardino della casa, i due diventassero compagni di giochi. Seppure frequentassero scuole diverse, si ritrovavano ogni pomeriggio nel giardino sul retro della casa per giocare e confabulare, c’era stato anche qualche screzio risolto tra di loro senza l’intervento dei rispettivi genitori, ma sembrava andassero d’accordo e si rispettassero l’un l’altro. Chiaramente le cose erano cambiate quando avevano raggiunto l’età in cui si scoprono altri interessi e modi alternativi di divertirsi, e si incomincia a considerare le ragazze non più come il sesso nemico.

I due ragazzi smisero di frequentarsi e, dopo qualche anno, Antonio trasferì la famiglia in un paesino vicino, dove, approfittando di una somma di denaro lasciata in eredità dai suoceri, aveva comprato una piccola casetta. Michele non si era più fatto vedere lì nella casa del Conte, anche se suo padre aveva continuato a lavorarci come giardiniere fino a quando si era ritirato in pensione. Da lui aveva saputo che Michele era diventato sottufficiale dell’Esercito e prestava servizio al confine nord-est. Un bravo ragazzo veramente, aggiunse Pietro, onesto e legato alla famiglia. Dai suoi racconti dei giochi con il figlio del Conte, concluse Pietro, certamente avevamo erroneamente dedotto che ne fosse il fratello.

Pietro aggiunse anche che Antonio Anselmi era deceduto qualche anno prima e che la Signora Gianna viveva ancora nella stessa casetta a Cervignasco poco lontano da Saluzzo, doveva avere l’indirizzo da qualche parte in caso ci servisse.

Ringraziammo Pietro per la sua gentilezza e per la limonata fresca, assicurandogli che avremmo portato i suoi saluti a Michele e alla Signora Gianna.

Salimmo senza parlare in macchina, avviai il motore e ripercorsi lentamente il vialetto verso l’uscita, superai il grande cancello di ferro e imboccai la stradina giù dalla collina, fino al bivio con la madonnina ed entrai nel distributore ormai chiuso per la pausa pranzo. Fermai la macchina e guardai Linda e Pippo.

Non vi era ironia nei loro occhi, ma tanta tristezza, non vi era la delusione per aver visto crollare tutti i castelli che avevano costruito, ma la comprensione verso un uomo che, forse insoddisfatto di condurre una vita piatta e monotona, ne aveva creata un’altra che fosse più attraente agli occhi degli altri, magari per gioco all’inizio, per poi finire per il rimanerci invischiato, tanto da farla diventare vera ai suoi stessi occhi.

Non ci fu bisogno di dire nulla. Avviai il motore e mi diressi verso la strada statale in direzione Torino – Milano – Venezia.

Nessuno di noi rivide più il Maresciallo Michele Anselmi Cavassa. Non rientrò più da quella licenza perché, dopo un periodo di aspettativa, fu “trasferito con effetto immediato al Distretto Militare di Cuneo”, come si poteva leggere sull’ordine del giorno del Reparto, per poter assistere la madre ormai anziana e sola, era la versione ufficiale, ma sicuramente perché doveva avere saputo da Pietro della nostra visita, secondo la versione di Linda e Pippo.