La prima cosa che mi colpì furono i suoi capelli. Rossi e dritti, capelli incuranti di qualsiasi legge, in primis la gravità. Quei capelli la descrivevano perfettamente. Uno spirito gioioso, un po’ folle, naturalmente fuori dagli schemi.
Se ne stava da sola in un angolo a giocare con le sue macchinine, navicelle spaziali e ricetrasmittenti. Mille oggetti meravigliosi, inusuali per noi, perché, come ho scoperto poi, non erano giocattoli della nostra generazione. Si trattava di vecchi balocchi che erano stati di suo fratello Sammy, di 15 anni più grande e prima ancora di suo padre Ludwig. Una famiglia con una spiccata tendenza alla scienza, alla meccanica, all’allegria e ai capelli rossi.
Giulia non ha mai avuto filtri nel dimostrare la sua gioia, che è un umore piuttosto costante in lei. Non conosce il senso della parola timidezza, ed è immune alle prese in giro. Non che non le riceva.
Anzi, capita piuttosto spesso. Solo che a lei non fanno né caldo né freddo. Io, personalmente, non l’ho mai vista versare una lacrima, neanche quando Annabelle le ha detto: “Lasciatela stare, non capisce mica, è mongoloide!”
“Cosa significa?” le chiese Samantha.
E allora Giulia rispose: “Credo lo dica per i miei bellissimi occhi blu, dal taglio orientale. Che ricordano vagamente quelli di Gengis Khan e della sua gente: i Mongoli appunto. Io però devo correggerti Annabelle, ti farà piacere sapere che capisco!” – non c’era nessuna ironia in quello che diceva, solo entusiasmo – “Sì, mio padre è irlandese, come potete vedere dal colore dei nostri capelli, e anche se capisco bene l’inglese, sono italiana, proprio come voi. Vi capisco! Volete per caso una macchinina? Sì, lo so, è un gioco da maschi… ma ne ho anche una rosa e una viola! Ve le presto! Anzi, ve le ragalo!!”
Ho sempre ammirato la sua semplice spavalderia. Forse perché è l’opposto di me.
Sono sempre stato molto timido. Anche prima lo ero. Prima dell’incidente intendo.  Quando conobbi Giulia ancora potevo correre, saltare, gioire con ogni parte del corpo. Eppure non lo facevo.
Mi ha insegnato proprio lei a farlo. Ero sempre un po’ arrabbiato, perché mio padre non c’era mai. Lavorava troppo e mi mancava. E poi Roma era molto diversa da Lucca, dove ero nato e dove ogni giorno potevo vedere nonno Amilcare. Io adoro nonno Amilcare. Sapete, lui è stato il capitano di una nave, proprio come me!
Ogni pomeriggio mi metteva sulla sua bici e percorrevamo insieme le splendide mura che circondavano la città, che nonno conosceva come le sue tasche.
Mentre a Roma tutto era così distante, caotico, rumoroso.
Ero diverso allora. Non come adesso che viaggio nello spazio-tempo e nulla mi spaventa. E molto del mio coraggio lo devo proprio a Giulia.

Appena arrivato lei mi osservava a distanza. Scrutava il mio silenzio. Era incuriosita da me, lo vedevo. Ma credo che esistano proprio poche cose che non incuriosiscano Giulia!
In cortile correvo dietro ai piccioni, per farli scappare, così, per sfogo. Lei allora frugó nel suo zaino, tiró fuori un pezzo di pane e lo iniziò a sbriciolare per i piccioni.
Io feci finta di ignorarla.
Allora lei venne da me, staccò un grosso pezzo di pane e me lo porse. Io la ignorai ancora, non la guardai e andai per la mia strada.
Lei allora servì i piccioni. Ma poi ritornò da me con il suo pezzo di pane.
Per ben cinque volte io la ignorai e lei tornò da me. Una scena muta che ci servì a rompere il ghiaccio.
In poco tempo Giulia aveva trasformato il mio sfogo rabbioso in un gesto di cura.

Dopo un po’ di tempo, Ippolito mi prese in giro perché me la facevo con Giulia, che non era “normale”, gli risposi che no, in effetti non lo era, perché Giulia, la mia migliore amica, è senza dubbio un portento.
Ed è anche merito della sua fantastica famiglia. Loro non intendono porle alcun limite. Le dicono sempre che se si impegna può fare qualsiasi cosa. E lei si impegna talmente tanto nelle cose che fa, che i suoi progressi, magari non immediati, sono duraturi, concreti, come possono essere solo le cose cresciute con grande cura, dedizione, passione e gioia nel cuore.
Quando sua madre, Amalia, scoprì di aspettare, dopo tanti anni, un secondo figlio, ne fu molto spaventata. Era già grande, ma dopo poco iniziò a sognare che si trattasse di una bella bambina da vestire di rosa.

E invece Giulia le ha tirato un brutto scherzo, perché il rosa non le piace molto, così come ignora le gonne, gli abitini, i fronzoli e i merletti. Lei adora l’azzurro, anzi il blu profondo, perché, dice, “è come lo spazio da esplorare!”
Da quella volta dei piccioni siamo diventati amici per la pelle, è stata la prima a tendermi una mano amica a Roma. E come sapete, insieme, abbiamo dato vita alla Happy turtle.
I nostri genitori sono diventati buoni amici, nella loro stramba diversità, e hanno sempre cercato di farci fare cose insieme, così non ci annoiavamo. Soprattutto mia madre e mio padre hanno insistito perché ci frequentassimo anche fuori dalla scuola. Non tanto la famiglia di Giulia: lei non si annoia praticamente mai, perché trova gioia nell’osservazione di ogni cosa.

La Happy Turtle non è stato il primo luogo dove abbiamo navigato insieme. Quando abbiamo compiuto sei anni mio padre, che è un medico e un appassionato di barca a vela, ha convinto Amalia, che è sempre molto ansiosa, a mandare Giulia con me al circolo velico per imparare a portare gli Optimist, quelle piccole barchette per bambini.
Dopo le prime lezioni di teoria, finalmente è iniziato il divertimento. Io e Giulia ogni pomeriggio d’estate ci lasciavamo spingere a vele spiegate verso il sole che tramontava: avevamo imparato ad individuare le raffiche dall’increspatura della superficie. Lei adorava lasciare andare il suo corpo fuoribordo, infilare la testa rossa in acqua mentre il vento forte, diretto a poppa le consentiva di controbilanciare il suo peso con la vela aperta, dall’altra parte, a 90 gradi.

Durante la bella stagione eravamo sempre in acqua, salvo temporali. Anzi speravamo proprio nel vento forte. Il nostro istruttore, Pino, ci seguiva in mare ogni giorno, felice di tanta dedizione e pronto a farci affrontare le prossime regate.
A volte capitava il vento fosse davvero un po’ forte e irregolare: capitava anche che la vela iniziasse a rigirarsi su se stessa, come impazzita, e più di una volta ci capitò di prendere il boma in testa.
Nulla di grave, fino a quella volta…

Mi svegliai dopo tre giorni dal coma e Giulia era lì, con il suo sorriso.
Era venuta a trovarmi perché i medici convenivano che mi avrebbe potuto aiutare sentire una voce amica, significativa. E avevano avuto ragione: appena avvertii la sua presenza mi risvegliai.
“Bentornato! Sono felice che tu sia ancora vivo!”
“Sì… Giulia, però non mi muovo.”
“Dai, non ti metterai a piangere adesso! Un problema alla volta! Camminerai, mal che vada ti aggiusterò io.”
Era convinta, e non sono neanche sicuro lo dicesse tanto per dire… Giulia in genere dice le cose come stanno.
La fortuna volle che a quel punto della mia vita, ero stato amico di Giulia già da parecchio tempo. Mi aveva già cambiato, in meglio. Aveva sostituito alla mia rabbia un concreto ottimismo.
Come sapete non cammino bene, ho ancora qualche difficoltà, ma i medici dicono che è già un incredibile traguardo per come ero messo. E se l’ho raggiunto lo devo a Giulia, che ogni giorno alla stessa ora, è venuta a ricordarmi cosa significa essere vivi, come è facile essere felici, che la cosa importante è avere un obiettivo, uno davvero bello, qualcosa che magari può sembrare irraggiungibile, fare un grande sorriso e impegnarsi per raggiungerlo.
Ora capite perché non potrebbe esserci un miglior meccanico-scienziato a bordo della Happy Turtle? Nulla è impossibile se Giulia è con me.