Uno dei momenti più difficile nella mia vita come scrittrice è stato quando per la prima volta mi hanno chiesto: “Perché hai iniziato a scrivere?”.
È davvero difficile spiegare com’è che è andata. Di sicuro tutto è cominciato quando da piccola decisi che dovevo fare qualcosa per quei soggetti simpatici e spigolosi che abitavano il mio mondo di fantasia.
Dovevo salvarli, ripetevo a me stessa ogni giorno, per impedire al demone della dimenticanza di risucchiarli da un momento all’altro.
Un altro momento molto difficile è stato quando per la prima volta qualcuno si è accorto che dentro la mia penna si nascondeva una donna.
“Sai”, mi ha detto una volta una signora che conosco, “ho letto quel tuo racconto… Quello che ha come protagonista un ragazzo… Beh, posso farti una domanda: come hai fatto a scriverlo in prima persona maschile, se tu sei una donna?…” I suoi occhi puntati addosso come un neon che stupidisce. Le sorrido e non rispondo.
Come non ho risposto a quel mio amico che un giorno per complimentarsi di fronte ai miei scritti disse addirittura che scrivevo come un uomo.
“In che senso?” gli chiesi divertita. Lui rispose: “Perché tu hai le idee chiare”, così disse.

L’altro giorno invece ero a pranzo coi miei parenti più stretti. Era il giorno di Natale, ma meno male a casa mia il Natale finisce molto presto. A un certo punto ho sentito l’esigenza di stare da sola, volevo andare via. Lo comunico agli altri, ma gli altri cominciano a ridere. “Perché tu dovresti andare via? Non mi dire che a casa hai qualcuno che ti aspetta?” E ridono a più non posso. Nella mia famiglia infatti io sono quella strana, quella senza figli, senza un lavoro, senza un fidanzato, quella che non si vergogna se gli altri pensano di lei che sia antipatica.
D’altra parte non è mica facile spiegare certe cose, né loro potrebbero mai immaginare che in verità a casa c’è un sacco di gente che mi aspetta. E io ogni giorno lavoro per loro, accettando il rischio del mancato compenso, ma può succedere persino a un medico di rimboccarsi le maniche se dall’altra parte ha un moribondo che non avrà mai i soldi per pagarlo, ma lui gli salva la vita ugualmente.

Così io ogni giorno sacrifico me stessa per salvare la vita a quei soggetti interessanti e spigolosi che abitano la mia fantasia. Mi sacrifico per loro fino a quando non sono certa che loro abbiano gli strumenti per uscire indenni dal turbinio delle storie dove li ho catapultati. Dalla mattina alla sera li sento implorare disperati, i loro passi risvegliano la mia memoria come un tamburo che suona ogni giorno una campana di morte e io non li posso ignorare, perché il loro sapersi dipende dal mio saper fare. E infine, quando qualcuno mi chiede: “Le storie che scrivi dove le prendi?”, io aspetto prima di rispondere.
Mi guardo attorno e spero solo che nel silenzio nessuno possa sentirli, quei soggetti spigolosi che vorrebbero tanto poter rispondere al mio posto per dire le cose come stanno.
Solo loro sanno da dove prendo le mie storie. Dalle notti di luna piena, questo è chiaro.
Io invece a differenza loro devo restare seria, e rispondere niente altro che: “Le prendo dalla vita quelle storie, mi pare chiaro”.