Claire Moreau, la mattina molto presto, guida il camioncino elettrico che raccoglie i rifiuti lasciati sulla spiaggia dai turisti; è un pick up bianco con la scritta entretien du littoral e le luci lampeggianti. Intorno alle sette passa davanti alla mia minuscola casa sulla sabbia. Claire porta sempre gli occhiali da sole anche quando non ce ne sarebbe bisogno e una bandana con visiera. È forte come un uomo, robusta, le mani grandi come caschi di banane, guida con il braccio fuori dal finestrino fumando e parlando al telefono con suo marito. Mentre scende dal veicolo con la lunga pinza e il sacco per ripulire la piccola insenatura, proprio qui di fronte, scambiamo un saluto o qualche volta due parole; o meglio, è lei che parla come un torrente in piena al disgelo e io annuisco o sorrido.

«Léa e Gabriel mi fanno diventare matta! Da quando è finita la scuola non mi riesce di impegnarli in niente, mi sfuggono sempre, sì sì li lascio un po’ sfogare come dice mio marito ma non ottengo nulla, allora mi metto ad urlare e finalmente mi ascoltano oh sì se mi ascoltano!»

…non fatico a crederci…

«Ora vado a casa e li tiro giù dal letto, io mi alzo alle cinque e loro a perdere tempo tutto il giorno ?! Ah no no ora passo da Jeanne a prendere les pain au raisin, ma se non mettono a posto la stanza non glieli dò e me li mangio io!! Au revoir madame!»

Au revoir Claire!

Ma stamattina non ha risposto al mio saluto, non mi ha vista, qui sulla piccola veranda.

Questo tratto di costa francese mi piace tanto. È abbastanza lontano da essere viaggio, abbastanza vicino da sembrare casa. Nuovo, ma non estraneo. Scendo i tre gradini di legno e sono sulla sabbia.

Con le ali vellutate arancio e nero, due farfalle mi sfiorano il capo e si posano sulla mia mano sinistra, l’una dopo l’altra. Percepisco il loro peso infinitesimale. Dopo pochi istanti si alzano nuovamente in volo, rotolano rapide come per avvolgere un gomitolo invisibile e si allontanano verso il cespuglio di santolina dal profumo pungente, resistente anche allo scompiglio del Maestrale.

Nella delicata luce del primo mattino, un cane del colore della sabbia arriva correndo; tenta di far scappare tre grossi corvi, ma loro non si spaventano, si spostano di pochi metri e continuano la loro ricerca di cibo. Il cane si allontana, richiamato dal padrone.

I corvi mi ricordano sempre il libro della prima elementare. Dodici disegni  raffiguravano i mesi. Nello spazio di gennaio c’era  una casa di campagna con il fumo che usciva dal comignolo, circondata da un campo innevato sul quale spiccavano i corvi; ma io, bambina di città, non li avevo mai visti. Mi piaceva pensare che li avesse disegnati un mio coetaneo che forse abitava in quella casa.

C’erano i corvi in Via Imperiale.

Stavano sui rami degli arbusti vicino alla villa liberty disabitata. Li vedevo spesso al tramonto, dopo essere uscita dalla casa dei miei genitori, mentre andavo a riprendere l’auto per tornare a casa mia.

Come se mi aspettassero.

Il loro sgradevole gracchiare mi turbava, sembrava gridarmi sfacciatamente che non dovevo illudermi. Mia madre se ne stava andando e io ero sconfitta, eravamo tutti sconfitti e non potevo fare più niente per evitarlo. La mia parte razionale li ignorava, ma il dolore per la perdita ormai imminente mi trasportava in un tempo sconosciuto, lontano millenni, quando gli umani, per dare un senso alle loro paure, tentavano di scorgere auspici e profezie da ciò che vedevano nella natura, dal comportamento degli uccelli e da altre illusorie circostanze.

Il cane del colore della sabbia ritorna a scacciare i corvi definitivamente, dalla piccola duna e dalla mia mente.

Il sole è appena spuntato verso Saint Maxime, l’aria è ancora fredda; l’acqua del mare poco più calda, ma il contatto è piacevole.

Entro.

In breve tempo mi immergo senza fare nessun rumore. Ho sempre amato tanto questa sensazione: mi lascio accarezzare dall’acqua mentre il peso svanisce, cadono i pensieri, dimentico le complicazioni, le convenienze, i compromessi; si sciolgono i rimpianti, le colpe, si appannano i meriti. Forse anche i sentimenti scolorano un poco. Emerge un senso di equilibrio molto appagante.

Una bracciata dopo l’altra, senza paura, senza fretta… ricordo le parole di mio padre.

Il respiro, dapprima un po’ accelerato, inizia a rallentare, diventa il respiro del mare e si accorda con il battito del cuore. Vivo in una armonia che è quasi una danza.

Una bracciata dopo l’altra, senza paura, senza fretta.

Potrei andare avanti per ore. Attraverso l’acqua limpida vedo un banco di pesciolini che mi attraversa. Dovrei dire che io attraverso il banco, ma non è così. Li ho visti tante volte muoversi in formazione, cambiare repentinamente la direzione, trovare nuovi percorsi. Oggi mi sembra che il brillio della loro pelle iridescente produca un suono lievissimo, quasi un tintinnio.

Una bracciata dopo l’altra, da uno scoglio all’altro e vedrai che impari, senza paura.

Non ricordo quanto tempo sia passato da quando sono entrata in mare, ma anche se  non sono stanca, esco.

È ritornato il cane, mi gira intorno, ma non viene a darmi la solita leccatina alle gambe. Fanno sempre così. Passano, al guinzaglio con i loro padroni, improvvisamente si avvicinano, mi leccano la caviglia o il polpaccio e proseguono. Fa ridere. Ma questo sembra non vedermi o forse pensa ancora ai corvi.

L’aria ora è diventata tiepida. Come arabeschi sulla sabbia, o bizzarri mandala, osservo serie di impronte che si sovrappongono, si incrociano, si rincorrono. Riconosco quelle dei gabbiani, le tracce del cingolato che compatta la spiaggia quando tutti dormono tranne me, orme di cani e di persone, forse di innamorati che ieri sera, alla luce della Luna che spegne i colori e accende i sensi, si sono promessi l’amore.

I miei passi sono silenziosi sulla sabbia ora dura, ora soffice. Soffice, dura, dura, soffice, soffice, soffice…soffice. Nulla. Mi volto e mi accorgo di non aver lasciato alcuna impronta dietro di me.

Nessun suono.

Comprendo che non sono più.