Freddo. Il vento sibilava tra i palazzi che si affacciavano ai lati della strada, si precipitava attraverso i vuoti tra uno e l’altro e urlava rabbiosamente contro gli scarni platani che costeggiavano la via.
Il cielo spruzzava un’acqua gelata e sottile, e i pochi passanti cercavano protezione a ridosso dei cornicioni, non riuscendo a tenere aperti gli ombrelli a causa delle raffiche. Le automobili passavano tranquille sulla strada, illuminando con i fari le minuscole gocce, ma ogni tanto uno scooter rompeva la monotonia, avventurandosi con prudenza sulla strada lucida di pioggia.
Su uno dei marciapiedi due ragazzi intirizziti camminavano tenendosi stretti.
«Fa un freddo cane!» sussurrò la ragazza liberando per un attimo la bocca dalla sciarpa di lana.
Lui la strinse più forte e la spinse nell’androne di un palazzo, dove il vento aveva impedito al portone di chiudersi automaticamente. Lì, provvisoriamente al riparo, si tolsero i berretti e ripresero fiato.
Lei scrollò la testa per ridare forma ai capelli, che erano rimasti schiacciati e lui li accarezzò piano.
«Lo sai che così infreddolita sei bella, Marina?» disse, avvicinandosi.
Lei fece una smorfia, ma si vedeva che apprezzava il complimento, perché gli sfiorò le labbra con un bacio. «Una meraviglia!» rispose.
«No, dico davvero» insistette lui, facendo il gesto di accarezzarle il viso, ma senza avere il coraggio di togliersi il guanto.
«Dai, dobbiamo andare, non voglio arrivare tardi a casa, mia madre si arrabbia!».
Si rimise il berretto, si avvolse nella sciarpa e il ragazzo fece altrettanto, poi si avventurarono di nuovo nel vento gelato.

Poche decine di metri dopo la strada finiva su una piazza completamente allo scoperto. Entrambi si fermarono a prendere fiato, tutt’altro che convinti di doverla attraversare, poi, dopo aver dato una rapida occhiata alle macchine che sopraggiungevano, attraversarono di corsa e furono sul terreno scoperto. Lì il vento batteva senza pietà e rendeva difficile anche solo respirare. Piegandosi in avanti i due riuscirono a poco a poco a raggiungere il centro dello spiazzo.
«Dai, che più avanti ci sarà meno vento, saremo riparati da quel palazzo!» disse il ragazzo, indicando un grosso condominio davanti a loro.
Lei non rispose, tenendosi il fiato caldo, ma in effetti guardando gli alberi sembrava che sull’altro lato il vento fosse meno forte, quel tanto che bastava a riprendere un’andatura normale.
Come furono sul marciapiede si apprestarono ad attraversare, ma la ragazza si bloccò di colpo, dando uno strattone.
«Cosa succede?».
«Là, sulla panchina vicino alla fermata… Non vedi qualcosa?».
Il ragazzo socchiuse gli occhi e cercò di pulirsi gli occhiali per vederci meglio.
«Sì, in effetti… sembrano degli stracci».
«Andiamo a vedere!».
«Sei matta? Con il freddo che fa!».
Ma ormai lei si era svincolata e si era diretta verso la panchina, quando una raffica di vento più forte delle altre la fece barcollare.
«Marina!» urlò lui, correndo a sostenerla.
«Roberto! Cosa ti dicevo? Vedi che è una persona!».
Ormai erano a pochi metri di distanza. Coricato sulla panchina, parzialmente riparato dalla spalliera, una figura inanimata era avvolta in delle vecchie coperte.
«È un vagabondo» disse Roberto, riluttante.
«Starà bene?» chiese lei. «Non si muove, sembra che dorma».
Per alcuni istanti rimasero senza sapere cosa fare, poi lei si avvicinò e provò a scuotere l’uomo prendendolo per una spalla.
«Non si muove» ripeté.
Alla luce bianca dell’illuminazione stradale il volto dell’uomo sembrava cereo, sotto la barba lunga.
«Sarà vivo?» chiese Marina, titubante, interpretando il pensiero di entrambi. Poi si sfilò un guanto e cercando di nascondere il ribrezzo gli sfiorò il volto.
«È gelato!» disse.
«Lo credo bene! Con questo freddo!».
«Cosa facciamo?».
I ragazzi si guardarono, e in quell’attimo il senso del dovere dei vent’anni ebbe la meglio sulla tentazione di evitare problemi e rifugiarsi al caldo. Lui tirò fuori dalla tasca del giaccone il cellulare.
«Faccio il 112» disse, componendo il numero.
«Io telefono a casa per dire che ritardo e spiegare quello che succede».
Sotto la luce livida dei lampioni gli automobilisti che transitavano senza fermarsi guardavano con curiosità due ragazzi fermi vicino alla fermata dell’autobus impegnati a telefonare, e scuotevano la testa.

Quando le luci blu dell’ambulanza si allontanarono senza sirena e i due ragazzi ebbero raccontato alla pattuglia di carabinieri intervenuta sul posto quello che avevano visto, era passata quasi un’ora. La deposizione provvisoria era stata raccolta all’interno della vettura, così almeno si erano riparati dal freddo, ma dopo l’invito a tenersi a disposizione per stilare il verbale definitivo, anche l’auto dei militari era ripartita, lasciandoli sul lato della piazza.
Roberto passò un braccio sulle spalle di Marina.
«Andiamo, ti accompagno fino a casa» disse.
Lei rimase ancora qualche istante a fissare la panchina ormai vuota.
«Nessuno dovrebbe morire così» disse alla fine, e una lacrima lottava con il freddo per scenderle sulla guancia.
Il ragazzo scosse la testa e la strinse forte a sé.
«No» disse.