Cosa può passare nella testa di un essere umano in quel paio di secondi scarsi che dura un volo dal quarto piano? Nulla probabilmente; il sangue deve essere accecato dall’adrenalina necessaria per trovare il coraggio d’un atto tanto folle ed estremo. O forse un unico, breve e bruciante lampo di disperazione. Non certo la gioia di volare o l’emozione di librarsi nel vuoto. Magari un inutile pentimento. Tanta paura di sicuro, un baratro nero e senza scampo, prima dell’urto che squassa ogni organo del corpo trasformando anni di paziente e laboriosa crescita in una sorta di confuso e sanguinolento magma. E tutto questo quando ancora, volendo, c’era un mucchio di tempo da giocarsi, un’infinità di opzioni da esplorare, speranze da coltivare, notti da non affogare nei sordidi giochi dell’anima che magari non riesce ad uscire dall’affanno, ma conserva sempre una speranza nel domani.

Chissà cosa avevi in mente quella notte, che cosa cercavi veramente, quale fosse il demone che s’era impadronito della tua anima prima e del tuo corpo poi.

C’era un vincolo di sangue tra noi, ma l’avevamo rinnegato già tempo prima. Forse per colpa mia, potresti aver ragione. Di certo lo pensavi e mi chiedo se in quelle ore, prima del finale che avevi architettato, tra le infinite angosce che hai dovuto attraversare, tu abbia in qualche modo rivisto anche qualcosa dei nostri furori. Probabilmente no. Certo in qualche modo sul piatto della bilancia anche quello deve aver avuto un qualche peso, marginale penso, ma pur sempre a far di conto nel totale. Se vogliamo, qualche ruolo l’ho pur avuto nei tuoi, anzi nostri, anni più verdi.

Ricordo i nostri giochi di bambini nel giardino di casa tua, i primi segni del male nel fisico di tuo padre. Che pure rivedo mentre fabbrica per noi una elementare barchetta il cui motore era un banale elastico attaccato all’elica. Andava attorcigliato manualmente e la barchetta navigava per pochi secondi nel mare immaginario della fontana nel tuo giardino. Nulla a che vedere con le meraviglie tecnologiche dei bambini d’oggi. Ma a noi bastava per sognare viaggi nell’oceano lontano e mondi misteriosi.

Ricordo poi le macerie della tua famiglia e la terribile agonia di tuo padre, distrutto giorno per giorno da una malattia progressiva che non perdonava. Lui, che un tempo era uno scapestrato, che suonava nelle balere, che scalava balconi, raccontavano, per infilarsi nei letti delle sue conquiste e che talvolta era costretto a fughe rocambolesche per evitare mariti infuriati, tornati a casa prima del previsto…

Mi vien da chiedermi quante volte eri passato davanti a quella finestra del quarto piano? Migliaia di certo, centinaia di migliaia probabilmente. Non c’è l’ascensore nel palazzo è quindi era normale salire e scendere le scale. Abitavi lì da molti anni, quindi… Solo da qualche mese però quel finestrone aveva preso vita nella tua testa. Ed aveva iniziato ad attrarti, tanto che capitava pure che, passando davanti, finissi per tenerti il più lontano possibile da quella apertura, giungendo a premere il corpo sulla ringhiera, come quando si deve passare in un vano stretto ed angusto. Trattenendo il respiro finché non iniziava la rampa successiva e la luce che entrava dei vetri era definitivamente alle tue spalle. Rifiatare a quel punto ed i piani successivi non contavano. Questo sia a scendere che a salire: il quarto piano ti angosciava per quel maledetto finestrone. Ma tu vivevi al sesto e quindi di lì dovevi passare.

Anche se in quella casa ormai ci tornavi di rado. Preferivi passare le tue notti in quello studio nella città vecchia, laddove tanti ch’erano o si dicevano artisti, avevano trovato rifugio e ricoveri a poco prezzo. Nessuno ci voleva più vivere in quelle case antichissime, spesso senza i servizi essenziali o al massimo con qualcosa che ci somigliasse, più o meno vagamente. Andavano bene con l’idea bohemien della vita d’artista e poi, volendo, si poteva far casino fino a tardi senza rompere a nessuno e senza che nessuno rompesse.

E a nessuno poi fregava se riempivi le pareti di messaggi che giusto per te avevano un senso, pure quando il giorno dopo quel senso te l’eri già scordato, ma in fondo bastava poco a trovarne un altro. Come bastava riempire pagine di parole, dettate magari dai fumi dell’alcol sperando che poi un qualche risultato venisse poi fuori. Chi poteva dirlo? Contava il gesto, contava il bisogno di tirar fuori quanto s’agitava dentro. Soprattutto contava allontanare quelle voci insistenti e sottili che venivano improvvise a guastare ogni gioco. Non si capiva che dicevano, ma si capiva che non erano amiche, che minacciavano, anche quando sembravano suadenti e complici. D’altra parte ormai era da tempo che quelle voci ti accompagnavano ed a poco era servito passare mesi e mesi tra le mura di quelle che chiamavano cliniche ma erano, a tutti gli effetti dei “manicomi”. Che non li chiamassero più così poco cambiava. Non eri più libero ed io, in qualche modo, avevo dato una mano a che ciò avvenisse. Non l’ho mai dimenticato.

Tutto sommato le mie intenzioni erano buone. Si potrebbe anche dire che il mio ruolo nella storia non me l’ero certo scelto da solo: visto che ti rifiutavi di parlare con chicchessia degli adulti della famiglia, qualcuno aveva avuto la bella pensata che forse a me avresti dato retta. All’epoca, dopo vari sbandamenti, avevi deciso che volevi entrare in seminario e, non essendo più già da un pezzo un ragazzo, ma un giovane in età universitaria, t’era venuto incontro il rettore d’un monastero che aveva acconsentito ad ospitarti per “verificare” la bontà della vocazione che dichiaravi.

Ma là dentro avevi dato un po’ di matto come già facevi di fuori, parlando delle voci che sentivi e dei misteri angoscianti della tua anima. Dopo due settimane, il rettore t’aveva messo alla porta ed ogni tentativo di avvicinarti da parte di tua madre e di altri parenti era stato vano. Lei, tua madre, poveraccia, pregava che qualcuno le desse una mano facendo leva sul suo stato di vedova che la rendeva fragile e sola nel gestirti o nel non gestirti, se preferisci. A qual punto, forse puntando su antiche frequentazioni, avevano pensato che forse io avrei potuto convincerti a farti curare. Nessuno s’era fatto scrupolo del fatto che, facendomi avanti, avrei finito per prendermi la responsabilità del tuo futuro e che il mio, considerato il fatto d’essere pressoché coetanei, sarebbe sembrato, come di fatto sembrò, un vero e proprio tradimento.

D’altra parte nemmeno io, non so dire se per stupidità o per candore, capivo a cosa stavo andando incontro. Aver collaborato in qualche modo al tuo primo ricovero è stata la mia colpa. Gravissima e, in un certo senso, hai avuto ragione ad accollarmela. Perché s’era vero che in fondo costituivo l’anello debole di quella catena che ti stavamo mettendo al collo, altrettanto vero è che potevo dire di no. Potevo tirarmi fuori. Potevo non prendere parte alla ridicola “caccia” prima e poi rifiutarmi di partecipare a quel viaggio notturno verso la città eterna e la clinica in cui ti stavano per ricoverare. È vero che in fondo io stavo in cabina con l’autista e dietro, con te nell’ambulanza, ci stava tua madre.

Anni dopo, quando tu avevi già chiuso i tuoi giorni con quel volo ed io ero andato a vivere a Roma, m’è capitato spesso di passare, correndo nei miei allenamenti, davanti a quella sbarra d’ingresso che avevo visto nella profondità della notte per la mia prima volta nella vita aprirsi per farci entrare. Solo che, dopo, io ero ripartito e tu, invece lì eri rimasto per iniziare il tuo calvario nelle varie cliniche che t’avevano visto entrare e uscire a più riprese. Ed ogni volta mi si stringeva il cuore a pensare a quanto io fossi stato ingenuo.

C’eravamo poi incontrati di nuovo: usando un po’ il fatto che c’era una parentela, avevi cercato d’infilarti nel mio giro perché ti piaceva una ragazza ed avevi cominciato a tormentarla. È vero, era piaciuta anche a me, quella ragazza, una emerita stronza che non meritava né le mie, né le tue attenzioni. Ma non era quello il motivo per cui ti avevo chiesto di smetterla di andarle dietro. In realtà nel giro in questione avevano fatto pesare quella parentela come se il tuo comportamento fosse una mia colpa. Ed io, come un cretino e per la seconda volta, ero stato al gioco: anziché mandare al diavolo lei ed il “giro” invitando tutti a cavarsi da soli da problemi che non mi riguardavano, chissà per quale idiota mia dipendenza ti avevo “convinto”, in maniera anche un non troppo gentile, ad andartene.

Avevi cercato in seguito di farmi pagare il conto di quel viaggio e della successiva “cacciata”, cercando di turbare la mia relazione già drammatica di suo con quella che allora era la mia fidanzata ufficiale. Quella volta m’ero incazzato e ti avevo insultato e minacciato, rischiando di passare alle vie di fatto.

A ripensarci oggi, dopo tanto tempo, non so cosa pensare. So che ero in buona fede, ma anche che ho sommato errore su errore. Come dicevo, non credo che questa storia abbia pesato più di tanto nella tua scelta di farla finita. Poi si son sapute cose ben più drammatiche dei tuoi giorni che, di sicuro, han reso molto difficile per te continuare a respirare. Quanto so però per certo è che la mia colpa è stata quella di non aver fatto nulla per venirti davvero incontro. Non ho idea se questo fosse un tuo desiderio e, del resto, non lo rendevi certo facile.

Tuttavia non è certo consolatoria questa coscienza. Dicono che quando un corpo impatta in velocità contro una superficie dura e resistente gli organi si staccano dalle ossa che li sostengono ed implodono, le cartilagini si frantumano, il cervello si stacca dalla scatola cranica, la circolazione s’interrompe. Magari fuori non appare neppure una stilla di sangue e, apparentemente, il corpo rimane integro. In realtà l’involucro, la pelle si affloscia su un contenuto mescolato come in una sorta di frullatore. Lanciarsi dal quarto piano nel vuoto è esattamente questo. Cosa avvenga in quei brevissimi secondi nella coscienza non è dato saperlo. È probabile che il dolore abbia già, a modo suo, “frullato” emozioni e sentimenti in un magma che non ha più alcun senso. E di certo nell’impatto non esce nulla.

Prima di lanciarti hai chiesto a tua madre, dopo averla chiamata nel cuore della notte perché ti venisse a recuperare in qualcuno di quegli equivoci bar in cui ti nascondevi, di fare un ultimo giro in auto per le strade della nostra cittadina.

«Per vederle ancora» pare tu le abbia detto e lei, ormai sin troppo abituata al difficile contatto con te, se qualche sospetto ha nutrito, ancora una volta ha dovuto accettare la sua impotenza. Poi ti ha urlato da sotto quelle scale che avevi imboccato di corsa, aveva provato, inutilmente ad inseguirti e fermarti. Non so se hai urlato anche tu nel breve volo. Lei di certo lo ha fatto quando ha udito, nel silenzio della notte, il terribile rumore dello schianto d’un corpo che si abbatte sull’asfalto dopo essere precipitato di una quindicina di metri.

Il resto conta poco o nulla. Il resto sono inutili pentimenti, i classici “se” e “ma” di cui si dice sia lastricata la via dell’inferno. Quando, come dicevo, mi capita di rivedere la sbarra che quella notte s’è alzata per far entrare l’ambulanza che ti avrebbe portato, qualche anno dopo, a spiccare il tuo ultimo volo, sento un malessere difficile da spiegare. Come difficile e praticamente impossibile mi risulta comprendere certi lavori che hai lasciato, immagini e parole. Dicono di te prima che tutto venisse “frullato”, ma non si capisce altro che sordo dolore. Oggi ti celebrano come un artista locale prematuramente scomparso. Ed hanno ragione da vendere.

Per me sei sempre e solo un dolore, un fallimento di certi miei giorni. E il simbolo d’un mondo in cui è difficile vivere per chi, come te, non nasce con la corazza giusta.