Quanti tempo era che non mettevo piede a Firenze?
Vent’anni, forse, una vita, e ora corro sotto ai portici degli Uffizi, ignorando la lunga coda dei turisti in fila per entrare.
Certo, devo andare a raggiungere la donna che amo, abbiamo solo un paio di giorni per respirare le nostre vite, scambiarci quelle carezze che dovrebbero essere cose di tutti i giorni ma che quando ti mancano sono il più prezioso dei tesori, eppure…
… Eppure mi sembra di commettere un sacrilegio, e mi sarei fermato, giuro che mi sarei fermato, se… E comunque è impossibile: avrei passato metà della giornata in coda, ma ci tornerò, pensavo, giuro che ci tornerò, quando… Se.

Mi fermo solo un istante prima di travolgere quell’uomo.
Sta lì, seduto su un gradino, un blocco tra le mani, un ridicolo cappello di paglia sulla testa e… sì, una mascherina sul volto. Anche io ho una mascherina, naturalmente, tutti l’abbiamo, forse a significare che siamo in libertà vigilata, che tutti usufruiamo di una licenza dalla morte. Contestualizzare, sempre.
Lui rialza lo sguardo, gli occhiali sul naso.
«Mi scusi» dico, imbarazzato, «Ero distratto».
Non sorride.
Per pura cortesia getto uno sguardo sui suoi quadri: due vedute di Ponte Vecchio, un paesaggio preso da dove? Forse da Piazzale Michelangelo. Intravedo le tonalità come macchie di grigio.
Avverto che mi sta osservando.
«Belli» azzardo, per rompere il silenzio.
«Le piacciono?».
«Sì, ero colpito dalla luminosità…».
«Uso il colore per costruire gli spazi» mi spiega, alzandosi e mostrandomi il significato della varie macchie, «vede, questo è il riflesso del ponte sull’Arno, e il verde sta a rappresentare…».
Si interrompe, vedendo che mi è sfuggita una smorfia, e resta in attesa della mia spiegazione.
«Ecco» dico, più imbarazzato di prima «il fatto è che io non percepisco i colori… nessuno».
«È daltonico?».
«Una specie. Ho avuto un ictus da giovane e mi hanno salvato la vista, ma ho perso la sensibilità ai colori».
Lui resta un attimo in silenzio.
«Mi dispiace» dice poi. Quindi, come per compensare: «Sa, io ho perso l’olfatto…».
Sorrido in maniera un po’ forzata. «Allora siamo quasi parenti» dico.

Lui si alza e cominciò a mostrarmi i suoi quadri, spiegandomi il colore del cielo, degli alberi, di un mare di papaveri rossi che inondano il prato, dell’azzurro pallido delle acque del fiume.
Quando ha finito mi guarda, come per vedere se ho capito.
Io ho le lacrime agli occhi: dalla sua descrizione ho immaginato i quadri proprio con i colori che doveva averci messo sopra, li ho visti vivere, uscire dal grigiore continuo della mia vita. Solo i quadri, però, come fossero finestre di una realtà diversa, di un mondo alieno che per una magia si è intrufolato dentro il mio.

Soddisfatto,  si siede e riprende a disegnare qualcosa sul suo blocco.
Mi rialzo, faccio un passo indietro, non so bene se devo dire ancora qualcosa, ma lui adesso è tornato al suo mondo. Accenno un ringraziamento e riprendo la strada, ma mi volto ancora e riguardo la scena: il portico e l’uomo grigi, ombra su ombra, ma quei quadri sgargianti di colori che esistono sulla tela e nella mia mente, anche se – ne sono consapevole – non nei miei occhi.
E capisco che grande regalo mi ha fatto, e corro via perché vorrei chiedergli di colorarmi tutto il mondo, e so che non è possibile. Forse i miracoli esistono, forse esistono solo a Firenze, forse soltanto in questo giorno magico.