Nel tentativo di trattenere la memoria tattile dello spettacolo davanti ai suo occhi passò le belle mani smaltate di rosso e un po’ tremantisulle pieghe delle lenzuola fresche. Non sapeva dire se fosse la paura o l’emozione a farle vivere quel momento, ogni sera, come fosse un addio. Le capitava così prima di uscire, quando sedeva per pochi attimi sul bordo del letto in silenzio, e con lo sguardo si incantava a seguire il profilo caldo del respiro sincrono di due piccole donne in miniatura, quel musetto morbido e abbandonato all’incoscenza. Dimentica della bruttura del mondo lasciò che il tempo scorresse senza inseguirlo per pochi minuti. Avrebbe voluto infilarsi in quel letto e far sentire alle sue bambine tutto l’amore, perché troppo spesso le pareva di non esserne capace. La vita le aveva reso difficile esternare la sua tenerezza. Mentre loro, le piccole, la cercavano sempre in quel modo prepotente, concreto, quasi estremo, e tuttavia fugace. Avrebbe voluto tuffarcisi in quel loro mondo addormentato, perché le faceva pensare all’infinito e sapeva di assoluto. Attenta a non rovinare il trucco consentì ad una sola lacrima di cadere sul margine di quei corpi amati, destinati a restare un ricordo indelebile nel fondo dei suoi occhi. Le sue bellissime bambine, la sua forza e, al tempo stesso, la sua più grande debolezza. Dorothy non era che una madre che sperava di meritarlo quell’amore, ma in cuor suo sapeva che così non era.
Raccontava sempre a sé stessa di non aver avuto altra scelta, che la povertà l’aveva costretta, che non immaginava significasse questo la solitudine in terra straniera. È una condanna, e poche speranze si hanno di riuscire a sovvertire l’esito di una storia già scritta.

Le piccole stavano crescendo, e la cosa la terrorizzava… gli incubi diurni di Dorothy erano popolati dal volto mascherato delle sue figlie, imbrattato dal trucco pesante, con occhi grandi e tristi come lagune profonde e solitarie, che le facevano sembrare delle vecchie bambine. Quello che la spaventavano fino a mancarle il fiato erano le pretese che i suoi aguzzini avrebbero potuto avere, a breve, anche su di loro.

Ormai iniziavano a capire, ormai la osservavano attente quando il pomeriggio lei piangeva guardando Pretty Woman sul televisore regalato da zio Elvis, che tanto doveva disfarsene per fare spazio al nuovo home teathre, quello con lo schermo enorme e un po’ concavo che pareva proprio di stare al cinema.

“Spero di non consumarlo mai il DVD di Pretty Woman… che fai musetto di pongo, ridi? È buffa la tua mamma quando si commuove, vero?”

Non potevano certo sapere, le sue bambine, che in quel film la loro mamma si immedesimava: che lei piangeva perché immaginava la reazione delle persone. Almeno per la durata del film, si diceva, qualcuno avrebbe potuto cambiare idea… Julia Roberts era riuscita a nobilitare, se non il suo “mestiere”, almeno il suo stato di essere umano. Solo per la durata del film, purtroppo. Come biasimarli? Dorothy prima di diventare Dorothy la pensava esattamente nello stesso modo sulle prostitute.

Zio Elvis lo aveva conosciuto in Nigeria. Lo chiamavano così perchè un nigeriano con gli occhi azzurri e vestito sempre di bianco faceva pensare ad Elvis Prisley. 

E a lui piaceva da morire quel soprannome, tanto che spesso a Roma si esibiva in un locale dove cantava canzoni del Re. 

Quando l’aveva conosciuto le era apparso come un eccentrico salvatore: bellissimo, con quella faccia da angelo aveva fatto credere a lei e alle sue amiche un sacco di belle favole. Era stato lui a darle il nome Dorothy, perché, diceva, sembrava una bambina piena di fantasia, proprio come quella del Mago di OZ.

E lei una bambina lo era davvero: aveva quindici anni, era sempre molto affamata e senza prospettive. Zio Elvis le fece intravvedere una possibile via d’uscita.

“Sei così bella che farai la modella, puoi giurarci. Gli stilisti faranno a gara per te…”

Nel villaggio nessuno parlava inglese. Non erano mai arrivate le storie della città, quelle che raccontavano di donne rapite, abusate, drogate, vendute. Rese prigioniere, trasportate nel freddo di notti annacquate, truffate. Umiliate, assetate, torturate. Affamate, assiderate… donne annullate.

No, ormai non partiva più nessuna dalla città…

Ai suoi genitori Elvis lasciò invece quaranta Euro, per il disturbo.

Da quando lasciò il villaggio Dorothy non capì più niente. Era diventata una marionetta nelle mani della follia umana. Cambiò più volte prigione e panorami, ai suoi venne anche chiesto di pagare un riscatto. Ma il pagamento non la riportò a casa: aveva pagato il suo viaggio per una nuova terra. 

Quando videro i gommoni alcune ragazze iniziarono ad urlare, a piangere, a scalciare. Furono picchiate, minacciate, messe a tacere e imbarcate a forza. Dorothy restò in silenzio, e da quel momento quasi smise di parlare. Istintivamente le sembrava che se non avessero individuato i suoi pensieri sarebbe stata più al sicuro.

Quando sbarcarono in Sicilia zio Elvis, che era arrivato in aereo per accoglierle, spiegó a lei e alle altre che avevano contratto un debito di 65.000 euro. Avrebbero dovuto lavorare per estinguerlo, ma non sarebbe stato facile trovare un lavoro senza documenti. La buona notizia era però che, grazie a lui, avevano un appartamento da condividere, e anche un lavoro, ovviamente.

C’era Layla che aveva lasciato il suo fidanzato in Nigeria ad attenderla perché le avevano detto che sarebbe stato facile guadagnare per una che aveva studiato da infermiera. Surya aveva il terrore dei riti voodoo, usavano quelli per farla stare buona. Non aveva studiato e sembrava in costante stato di shock. C’era Penelope che avrebbe voluto guadagnare i soldi per inscriversi a giurisprudenza; aveva assistito sua zia a lungo prima che morisse, era sempre stata molto paziente e rispettosa, e ci sapeva fare con gli anziani. Per questo, pensava, non avrebbe trovato difficoltà a trovare lavoro in Italia. C’era Freeda, la piccola Freeda, che invece aveva creduto di venire a Roma per lavorare come babysitter, perché lei proprio adorava i bambini… con il tempo little Freeda era diventata un aiuto irrinunciabile con le due principesse di casa.

Quella spaventosa marea di debiti… e una sola possibile via d’uscirne più o meno incolumi.

“Sei giovane, sei bella, ci metterai poco a saldare… e poi potrai cambiare la tua vita…”, zio Elvis aveva sempre avuto un debole per Dorothy. Di solito non si sporcava direttamente le mani con le ragazze. Per lui erano solo begli oggetti da vendere, bamboline da rendere desiderabili, il gioco proibito per i clienti più in grana. Sceglieva quelle belle e poi si dava un tono, che si sa, la qualità si paga.

Per lui di solito non teneva niente, ma per Dorothy, che aveva il volto di una bambina e il corpo di una regina guerriera, volle essere il primo. 

“Fammi vedere come ti muovi.”

Mentre la stuprava, e con l’aiuto di droghe la rendeva inerme e dipendente, lui la esaminava.

“Sei ancora acerba, ma quando sboccerai… farai la nostra fortuna.”

Non l’aveva immaginata così la prima volta Dorothy…  da piccola spesso scalava un’altura. Da lì in cima il villaggio sembrava un presepe, una miniatura… e se era fortunata assisteva persino al passaggio delle antilopi. La luce del tramonto faceva tremare l’aria che sovrastava la terra arsa dal caldo della regione del Delta.

Era quello il suo luogo segreto. Era lì, su quel promontorio desertico ma riparato per conformazione dalla vista altrui, che un giorno avrebbe amato, riamata, l’uomo con il quale condividere il resto della sua vita. Avrebbe disteso in terra la morbida coperta di lana grezza tessuta da nonna Tala, e si sarebbe lasciata andare al tocco delicato ma forte del suo uomo. Così aveva sempre sognato.

Zio Elvis quella prima volta fu violento, ma soprattutto, come dire… metodico. Scaricò su di lei la sua rabbia, ma al contempo le diede l’impressione di non volerla rovinare, come si fa con la merce da vagliare e poi rivendere.

“Diremo che sei ancora vergine”, lui disse dopo, e subito si mise all’opera per scegliere con cura i primi clienti. 

Il giorno dopo fu addobbata a festa e portata nell’appartamento di zia Tania.

Fu zio Elvis a scegliere per lei il vestito rosa, la pettinatura a treccine lunghe fino al fondoschiena, le scarpe col tacco che era impossibile camminarci, “devi abituarti, mica puoi fare la modella se non sai camminarci” e rise zio Elvis, tradendo per pochi istanti, in un ghigno, la sua faccia d’angelo dai denti bianchissimi. Oltre al danno, la beffa avrebbe detto Dorothy se già allora avesse conosciuto quel modo di dire.

Non era la sorte destinata a tutte, le altre andarono in strada, ma lei all’epoca era minorenne, e bellissima, e quindi la destinarono ai portafogli più interessanti.

Zia Tania l’accolse elegantissima nelle sue forme prorompenti. Una donna sempre sorridente e giuliva, “oh eccola la mia principessa!” Le diede un bicchiere d’acqua e una pasticca e la invitò ad accomodarsi in una stanza tutta arredata sui toni del rosso. Sul letto era sdraiato un vecchio in pigiama di seta, e sopra di lui uno specchio ricopriva per intero il soffitto.

Qua e là erano appoggiati oggetti. Di alcuni non avrebbe neanche saputo dire il nome, riconosceva per certo le manette, e una frusta.

Zia Tania lasciò la stanza e il vecchio riconobbe il terrore negli occhi di Dorothy, “non preoccuparti bambina, non li useremo, non questa volta…” e le sue labbra si inumidirono mentre le fece cenno di avvicinarsi.

Quel che è successo dopo, l’impaccio di quelle prime volte, con il tempo ha lasciato il posto alla forza della disperazione. Oggi Dorothy sa di essere meno sfortunata delle altre, perché ha dei clienti fissi e non deve battere la strada. Lì sì che succede di tutto. Non è brava in matematica, ma immagina di aver saldato il suo debito da un pezzo… Quindi le è chiaro che non la lasceranno andare. Deve solo capire come fuggire, portare in salvo le piccole, sopravvivere. 

Ormai Dororhy parla italiano, lo capisce… ha sentito raccontare dalle sue amiche di posti dove le donne come lei vengono accolte, e magari imparano anche un lavoro.

Non è facile trovare un momento per guardarsi in giro, comprendere le mosse da poter fare per aggiudicarsi la libertà. Zio Elvis spesso entra in casa anche di giorno e si lascia servire come un imperatore. Porta vestiti rosa e giocattoli per le piccole, che lo chiamano zio. Dorothy legge affetto per lui nei toni delle sue bambine, e il suono arriva nei timpani come una stridente sentenza di morte. Deve salvarle. Deve trovare il modo.

Lui sa di essere il padre. Per questo non l’ha fatta abortire? Possibile che abbia dei piani diversi per loro…?

Ricorda bene la sera in cui le ha concepite, e sa che non può essere che quella, perché quando l’ha violentata non si è preso certo la briga di prendere precauzioni. Era partita come una serata migliore delle altre, “Stasera non si lavora, ti porto in un bel posto.”

Aveva voglia di farsi adulare zio Elvis quella sera, mentre si esibiva sul palco del night club tappezzato rosso e oro, cantando canzoni del suo mito in abiti un po’ troppo rococò.

Dorothy in un vestito bianco lo osservava. Sorrideva, nascondendo il disgusto. Lui la faceva vomitare… immaginava di passare una lama affilata intorno al suo collo. Di sgozzarlo come una volta aveva visto fare ad un maiale.

Faceva questi pensieri e sorrideva Dorothy, mentre tutti gli uomini guardavano lei.

Un giorno le sue bambine avrebbero scoperto di essere figlie di una puttana e di uno stupratore. Almeno avesse avuto figli maschi! Non voleva il suo presente come loro futuro, non lo avrebbe sopportato.

Nel night all’improvviso entrò una donna bionda, dall’espressione dura e decisa. Sensuale e distante. Una donna vestita di rosso. Elvis smise in fratta di cantare e sorridendo le andò incontro, ma la donna lo ignorò, e guardò altrove con espressione altera e incredula di fronte a quell’assurdo slancio che lui le aveva dedicato.  Lo lasciò come uno stupido in mezzo alla sala. Il re fasullo restò così, immobile, mentre la sua espressione si tingeva d’odio. Furono pochi lunghissimi istanti e poi, senza neanche guardarla, prese Dorothy per un braccio e se la portò a casa. Fu quella la volta che vide il televisore nuovo. Ubriaco le lasciò sul letto un vestito rosso. “Indossalo”. Dopodiché sfogò su di lei tutta la sua rabbia, tutta la frustrazione di quel pubblico rifiuto. Era stato così, proprio così, che aveva concepito le sue bambine dalla pelle ambrata e gli occhi azzurri come il mare.

Dalla loro nascita lui, Elvis, non l’aveva più toccata. Qualcosa era cambiato nel suo sguardo. A volte era persino… gentile.

Non oggi. Oggi Elvis è di pessimo umore. Entra in casa come un pazzo, urla che lei e le bambine devono seguirlo. Dorothy è terrorizzata, e anche le piccole.

“Ti prego, non farlo…”

“Taci.”

Le fa entrare nella Mercedes, lei stringe le piccole forte forte e cerca di tranquillizzarle, poi calma se stessa annusando i loro capelli. Guarda la città eterna scorrere sul finestrino… pensa che magari morirà presto, che è stata anni lì, eppure Roma non l’ha mai vista. E poi… poi Elvis inchioda e le scarica davanti ad un’antica casa in centro. Sarà lì che finirà tutto? Le bambine pangono, non capiscono, lui esce dalla macchina, apre il portabagagli, scarica delle valige che Dorothy non sapeva avessero portato e suona il campanello. Esce una suora dall’aspetto gentile e assonnato, che subito le invita ad entrare. Alle bimbe Elvis regala un orso ciascuna, rosa e profumato, poi sale in macchina e parte sgommando, a tutta velocità nella notte più scura. Si ferma quando è abbastanza distante. Mentre canta “Are you Lonsome Tonight” cerca un ponte del Tevere dal quale saltare.