Piove ormai ruggine per le vetuste vie del tuo universo. Procedi lentamente, parli non dicendo. Lo sai che non servono parole, che comprendo i moti lenti della tua anima anche senza ascoltare. Sfuggente, la vita, ti trattiene come può. Ed io al tuo finale non sono pronto ad assistere. Perché con te iniziò di nuovo la mia esistenza, quando lo credevo impossibile.
Dal momento in cui, giunto a Roma salvo, se di salvezza si può parlare quando si è soli al mondo, quando il tuo Paese è in guerra, quando si è visti perire in un mare che credevi amico la tua stessa madre, e i tuoi fratelli, nella notte più lunga e fredda di una intera esistenza. E che fosse la più lunga e la più gelida lo avrei potuto giurare anche allora, quando il mio cammino era solo all’inizio. Ma il fatto è che si trattava di un inizio che somigliava davvero troppo alla fine.
Da quella notte sono scorse tante altre notti. Sono miracolosamente approdato all’età adulta. E oggi, quasi cinquantenne, per la prima volta osservo la vita che intende andarsene da una persona cara secondo un corso assai più naturale, quasi evaporando a poco a poco. Che mi avverte, e gradualmente si accomiata come fa un ospite educato. Il tempo necessario per abituarsi. Non all’evento, ma al dolore. Il tempo per abituarsi al dolore.
Quella notte, passate interminabili ore in ipotermia fummo avvistati, fummo salvati, coperti, e infine accolti. Fui curato. Fui oggetto di frettolosa pietà. Talvolta attorniato da grande umanità, purtroppo spesso assai povera di mezzi.
Appena sbarcato ero stato accolto, vaccinato, curato, nutrito a forza e poi affidato ad una casa famiglia. In Toscana. Ci provarono, ma non era facile riuscire a trovarmi una vera famiglia. Il trauma vissuto mi aveva reso muto. Estraniato. Lontano. Il freddo mi aveva impedito di urlare quella notte, non un suono, anche quando vidi mia madre affondare per poi riemergere esanime. Quel freddo, e quella notte, avevano catturato la mia voce e immobilizzato i miei sentimenti in una unica e terrificante apatia. Prigionieri, per sempre. E poco mi importava. Sarei rimasto così in attesa di sprofondare anche io.
In qualche modo mi abituai al tetto dell’associazione. Il mio nuovo tetto. Ero spesso oggetto di cure dispensate nonostante tutto. Soprattutto quelle amorevoli di Dominique, una mediatrice culturale e una psicologa infantile. Conosceva il modo di pensare della mia gente, e sapeva di solito interagire con noi bambini, qualsiasi fosse la nostra provenienza.
Con me invece passavano i mesi e non poteva ravvisare progressi. Restavo silente. Passavano ogni giorno molte ore insieme. Lo capivo dal suo sguardo che si sentiva sconfitta. Ma le mie emozioni si erano ghiacciate quella notte insieme alla mia voce. E nulla mi sembrava poter sciogliere quel ghiaccio. Ma mi sbagliavo.
Ci portarono a Roma. In gita. Proprio come si fa con i bambini normali, che frequentano le scuole normali. Quelli che hanno una famiglia. Quelli che non hanno solo morte dentro. La normalità…
A Piazza Navona per la prima volta provai qualcosa che pensavo ormai impossibile risvegliare. Curiosità.
Vidi due gambe accavallate, fasciate in vecchi jeans, sbucare al di sotto di una tela da pittore, di cui vedevo l’intelaiatura posteriore. La tela era posizionata su un vecchio cavalletto in legno color castagno e i piedi dell’uomo, nascosto dietro la tela, tenevano evidentemente il ritmo rivestiti da un paio di polacchine grigio verdastro, un bel po’ consunte.
Mi allontanai dal gruppo. Dovevo vedere il volto dell’uomo nascosto dietro il telaio.
Dominique mi seguì, ma non osò interrompermi.
Finalmente riuscii a scorgere quel volto. E lui mi guardò nel primo di tanti moti di reciprocità che da allora hanno contraddistinto il nostro rapporto. I suoi capelli erano lunghi e mossi, i suoi occhi erano del colore del mare. Nella sua ver-sione amica. Mi sembrò che amasse davvero ciò che stava fa-cendo. Disegnava, teneva il ritmo e, nel mentre, emanava un senso di pace.
Mi fece cenno di avvicinarmi e di sedermi sopra una sedia di fronte a lui.
Lo feci. E lui iniziò a ritrarmi. Ero affascinato da quella maestria. Dall’agilità dei suoi gesti d’artista. Lo osservavo e li facevo miei.
Quando me lo permise mi avvicinai al mio ritratto. Era molto tempo che non mi guardavo più con attenzione e fu molto strano osservare in quei tratteggi che non tutto di me era rimasto in sospeso quella notte: io fisicamente stavo cambiando, e crescendo.
Guardai affascinato la sua collezione di matite usate in buona parte per metà della lunghezza originaria.
«Prova» mi disse.
Mi sedetti al suo posto e tratteggiai con gesti sicuri, come fossi in uno stato di trance, la scena di quella notte. Piano piano le persone si riunirono intorno ad osservare il mio disegno che prima prendeva vita e poi si tingeva di morte.
Sentivo un brusio di ammirazione intorno a me.
Marck, presto seppi che questo era il suo nome, mi aveva fatto scoprire che quando avevo perso la parola, in cambio avevo ricevuto un nuovo talento. E mi piacque quella nuova attenzione che si agitava intorno al mio creare. Dopo tutto quel tempo, finalmente, nello sguardo di chi mi guardava non coglievo ombra alcuna di pietà.
Dominique, incredula più per la nuova verve mostrata che per l’abilità rimasta celata in mesi interi in cui lei e gli al-tri psicologi avevano tentato, invano, di farmi trovare espressione attraverso un disegno, chiese a Marck di unirsi a noi per il pranzo. Accennai per la prima volta, dopo quasi un anno, a qualcosa che poteva somigliare ad un sorriso.
Ma Marck, che si muoveva a seconda di come tirava meglio il vento, fece molto di più. Prese il suo sacco di poche cose, e dopo il pranzo venne con noi, in Toscana. Si organizzò così una nuova porzione di vita: continuava a fare il pittore di strada per alzare qualche spicciolo, e nel mentre divenne un habitué dell’associazione. Veniva per me. Il nostro dialogo continuava tratto dopo tratto. Ci stavamo cono-scendo e raccontando in quel modo bizzarro.
In breve ne uscì fuori una produzione che in molti trova-rono meravigliosa. Dominique allestì la nostra prima mostra, dal titolo Dialogo su tela, che ebbe grande successo.
Molti altri ragazzi della casa famiglia si unirono a noi per il progetto, ed io scoprivo così anche il piacere di insegnare, e in definitiva, di dare.
Quando, come ultimo pezzo da mostrare nell’allestimento, feci il suo ritratto, Marck capì che doveva diventare mio padre: per la prima volta un mio disegno esprimeva serenità, amore e forse addirittura un po’ di gioia sommessa.
Ne parlò con Dominique, che le presentò chiare le diffi-coltà enormi che avrebbe trovato. Non era sposato, non aveva un lavoro stabile, non aveva una casa.
E lui le fece una proposta sconcertante e assennata allo stesso tempo:
«Tu lo ami quanto me. Non hai famiglia come me, ma hai una casa in cui potremmo stare, hai un lavoro, e forse potresti trovarne uno anche per me qui. Dominique, sposiamoci.»
Dominique aveva quindici anni di più. Non era tanto bella come lui, ma in fondo non si sarebbe trattato di un matrimonio di amore nel senso canonico. Ma di un amore traslato, verso di me, e quindi ai suoi occhi forse ancora più nobile. Capì che quella sarebbe stata l’opportunità per costruire qualcosa per me, e accettò.
Avevo una famiglia. Mi amavano. Ma ero ormai così disabituato a parlare, che non lo feci. Non ero riuscito ad urlare quella notte, che senso avrebbe avuto farlo ora. Cosa c’era di così importante da non poter esprimere con un disegno?
Oggi Marck, te ne stai andando. Ormai non ti alzi quasi più. Dominique è ancora una donna forte, si prende cura di te come ha sempre fatto con tutti gli esseri umani che hanno avuto la fortuna di incontrarla. La sua presenza nella nostra famiglia è stata importante. Lei è un’autentica quercia, e in questi anni ci ha osservati un po’ a distanza… è intervenuta solo quando è stato necessario per aggiustare il tiro. Un coach al servizio della nostra passione, dei nostri talenti. Non è stata una semplice spettatrice, anche se a volte, lo ho percepito, avrebbe voluto fare parte della magia vera e propria, riservata al dialogo artistico e d’amore tra me e te. Ma lei ha portato equilibrio nei nostri animi vorticosi. È lei che ha fatto sì che della nostra passione riuscissimo anche a sopravvivere. Si è trasformata in una impresaria, e ha rivestito alla perfezione il ruolo.
Eppure Marck, ora la stai guardando con una luce che non avevo mai notato prima. Ti sei accorto che me ne sono accorto.
Quando lei esce dalla stanza mi indichi un cassetto. Lo apro. Contiene il primo ritratto che mi hai fatto in quella piazza. Ti sorrido e riabbasso lo sguardo. Ce ne sono altri… Sotto il primo un altro ritratto di me, che non avevo mai visto prima. Identico al primo, ma il mio sguardo è diverso. Lo sguardo che avresti voluto per me. Occhi ridenti. Mi sto commuovendo, ma piango appena. Tengo lo sguardo abbassato per non esplodere.
Sotto ancora c’è il ritratto di Dominique, nel giorno del vostro rapido matrimonio. Più bella di come la ricordo. Sorrido di nuovo.
E nel ritratto successivo… ancora una proiezione di un tuo desiderio. Ed io che pensavo di conoscere l’uomo che ho di fronte come e più di me stesso, non lo avevo mai capito: Dominique è vestita da sposa, in un abito che non è quello della cerimonia informale celebrata soltanto in funzione della mia adozione. È la più bella delle spose. E possiede la luce che tu avresti voluto per lei.
Sono stato così preso dalla nostra arte, dal rapporto spe-ciale che mi legava a te, che non mi sono accorto che voi alla fine vi siete amati davvero. Che eravate destinati ad essere marito e moglie al di là di me.
È giunto il momento di usare la mia voce, di dire le uni-che parole tu ora vuoi sentire. Prendo le tue mani che non riescono più a tenere una matita, le accarezzo e con lo sguardo accarezzo anche questi occhi blu che amo più di ogni altra cosa al mondo. Mi schiarisco prima un po’ la voce, perché se anche sono quaranta anni che non parlo, queste parole devono uscire con suono netto.
«Ci sarò io per lei, non temere.»