Lo sapevo, sai.
Sapevo che non mi avresti riconosciuto.
I medici mi avevano avvertito, gentili e pazienti, ma pur sempre con quel tono professionale di chi è ormai abituato a confrontarsi quotidianamente con le umane miserie ed a farsele scivolare addosso senza provocare intime perturbazioni, una volta smesso il camice candido e rigoroso.
Questione di sopravvivenza.
Così, quando sono entrata nella tua stanza, nell’asettica penombra di un pomeriggio d’estate, e mi sono avvicinata a te sussurrandoti il mio saluto, mi hai rivolto lo sguardo per un momento, fissandomi senza guardarmi, e distogliendolo velocemente subito dopo.
Le sottili strisce di luce che penetravano attraverso gli scuri davano all’ambiente un’atmosfera apparentemente ovattata e carezzevole, come se essere confinati lì dentro rendesse immuni da qualunque dolore, anestetizzando sul nascere qualsiasi forma di ribellione o di punizione autoinflitta.
Mi sono accomodata sul bordo del letto, lievemente, cercando di non pesare, e di non pesarti. Ma la mia presenza, lo so, non avrebbe in alcun modo modificato la tua percezione di chi e di ciò che ti stava intorno; i tuoi occhi sfuggenti guardavano verso le sottili fessure di luce proveniente dalla finestra socchiusa, senza vedere.
Ho allungato la mano, fino ad incontrare la tua, indifferentemente abbandonata lungo il tuo fianco, sul bianco lenzuolo, asciutta e ossuta.
L’ho presa, l’ho afferrata, delicatamente, l’ho fatta mia, aggrovigliando le mie dita alle tue, senza stringere troppo, senza prevaricazione.
Volevo solo ‘sentirti’, ascoltarti, comunicare con te attraverso quel muto linguaggio di gesti, lenti e misurati, che da tempo ormai ci era familiare. Uno scambio silenzioso, ma profondo, senza verbo proferire.
Restammo così, vicini, uniti solo da quel lieve contatto di mani, per un’eternità di istanti che entrambi, più o meno consapevolmente, avremmo custodito dentro.
Fu solo dopo molto tempo, dopo che la penombra in cui era dapprima avvolta la stanza si tramutasse in oscurità, dopo che i tuoi occhi sfuggenti si chiusero cedendo, come ogni sera, ogni giorno, alle carezzevoli lusinghe di Morfeo travestite da pillole magiche, fu solo allora, che ti lasciai andare, che mi lasciasti andare…
Che cosa strana, in fondo, e meravigliosa, è la vita. La attraversiamo procedendo, cauti o spavaldi, lungo il nostro cammino fatto di sogni, di scelte, di dubbi, di gioie e di sofferenze, fatto di incontri che ci forgeranno e ci abiteranno il cuore…
Anche tu, in questo, hai la tua parte.
Forse non lo sai, ormai. Non più.
Ma quella tua mano, asciutta e ossuta, sa ancora accarezzarmi l’anima, sai.
Mi basta.